Inferno, Canto XXIII Silvana Torto legge la Divina Commedia Silvana Torto @silvamarilli legge Dante Alighieri su #divinicanti la rubrica condotta su #libertàdipensieroMDN il nuovo canale YouTube megliodiniente.com Inferno Canto Ventitreesimo (dopo il commento al min. 16:30) #ladivinacommedia #dantealighieri #divinacommedia #poesia #poema #letteratura #arte #cultura #italia #letteraturaitaliana #audiobook #audiobooks #audiolibro Maestro e discepolo marciano sull’argine tra quinta e sesta bolgia, uno davanti, l’altro dietro, come camminano i francescani. Dante ripensa alla rissa a cui ha appena assistito: ricordate il barattiere Navarra che approfitta della spacconeria di Alichino per sottrarsi agli uncini dei diavoli e rituffarsi nella pece? E ricorderete sicuramente come poi seguì la rissa tra Alichino e Calcabrina, che precipitano anch’essi nella pece bollente. Bene, Dante associa quello che ha visto a una favola di Esopo: quella della rana e del topo. E d’un tratto la sua paura raddoppia: a causa loro i diavoli si son fatti sicuramente più cattivi e potrebbero raggiungerli per vendicarsi dello scorno che hanno subito. Comunica la sua angoscia a Virgilio, che tanto tranquillo non è nemmeno lui e accellerano il passo. Dante si volta e vede i diavoli già con le ali tese che si avviinano per acchiapparli. Ed ecco due tra le più belle similitudini della Commedia, a indicare la sollecitudine e la dignità di Virgilio nel salvare il discepolo, come fosse suo figlio. “Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch’al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese, che prende il figlio e fugge e non s’arresta, avendo più di lui che di sé cura, tanto che solo una camiscia vesta; e giù dal collo della ripa dura supin si diede a la pendente roccia che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura. Non corse mai sì tosto acqua per doccia A volger ruota di molin terragno, quand’ella più verso le pale approccia, come ‘l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra ‘l suo petto, come suo figlio, non come compagno.” Poi la musica rallenta, dal Presto agitato a un Largo grave. Eccoli nella nuova bolgia, la sesta. “Là giù trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi piangendo e nel sembiante stanca e vinta”. Questi forzati, gli Ipocriti tristi, hanno cappe con cappucci scesi davanti agli occhi, come quelle dei potenti monaci cluniacensi. Le cappe dei dannati sono dorate all’esterno d’una doratura abbagliante ma dentro sono di piombo, pesantissime, che al confronto erano di paglia quelle cappe che Federico II imponeva ai colpevoli di lesa maestà, pensate, prima di metterli a cuocere in un calderone! Buon ascolto!