Poesia

Intervista ad Emanuele Martinuzzi

 

 

 

NOTE BIOGRAFICHE DI EMANUELE MARTINUZZI

 

 

Emanuele Martinuzzi, classe 1981, Pratese. Si laurea a Firenze in Filosofia. Alcune delle precedenti pubblicazioni poetiche: “L’oltre quotidiano – liriche d’amore” (Carmignani editrice, 2015) “Di grazia cronica – elegie sul tempo (Carmignani editrice, 2016) “Spiragli” (Ensemble, 2018) “Storie incompiute” (Porto Seguro editore, 2019). Ha ottenuto numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali. Ha partecipato al progetto “Parole di pietra” che vede scolpita su pietra serena una sua poesia e affissa in mostra permanente nel territorio della Sambuca Pistoiese assieme a quelle di numerosi artisti.

 

 

 

Intervista di Barbara Gabriella Renzi

 

 

 

 

Con Emanuele bisogna lasciar parlare la poesia: un poeta come pochi. Un poeta non solo perché’ sente poesia ma la scrive. Un poeta che ci rendi poeti, tra il vento e i gorghi siamo vestiti di foglie con lui, in vento ci perdiamo, di parole siamo costituiti, le sue parole che divengono nostre.

Un poeta con un linguaggio denso, metaforico, come io sento il linguaggio poetico: sono squarci di senso i suoi versi. Sono tagli di tela per vedere l’inconscio di senso, quello personale e quello collettivo. Sono versi i suoi.

La natura- anima esiste nel tempo e fuori dal tempo, ci vediamo in uno specchio con Emanuele, che racconto i nostri timori con i suoi versi.  Rompiamo il velo del fenomeno per entrare nel noumeno delle cose, l’essenza dell’essere che esiste fra le parole e nelle parole.

La poesia di Emanuele scioglie la fragilità umana in versi, brevi e taglienti come schegge di specchio.

 

Spiragli, pubblicato da Ensemble nel 2018 è un testo che va letto per essere nel mondo e il mondo e la natura e vestire la nostra fragilità.

 

  1. Chi è Emanuele Martinuzzi?

Sinceramente non so dare una risposta chiara. Sono una persona comune, con le sue fragilità e qualche qualità. Faccio una vita tranquilla e abitudinaria in linea di massima e mi piacciono le cose semplici nella mia quotidianità, come belle e complesse nell’arte. Il fatto che la poesia però sia entrata nella mia vita complica con pienezza questa domanda. Scrivere poesie è un modo antico e misterioso di cercare di rispondere al monito che l’oracolo di Delfi disse a Socrate: conosci te stesso. Molto spesso si vive nella falsa certezza di sapere chi siamo, in un’immagine confortante o socialmente riconosciuta in cui ci rispecchiamo e rassicuriamo. La poesia, come l’arte o la filosofia e tutte le grandi cose che l’umanità ha creato o scoperto dentro se stessa, tendono a toglierci le nostre false certezze e aprirci alla possibilità sempre nuova della creatività e della fantasia. Noi siamo essere gettati in un mistero, senza un’identità o una risposta univoca, assorti nella meraviglia e nel terrore che provengono dalle domande più profonde, a cui non possiamo dare una risposta definitiva, perché incompleti siamo prima di tutto proprio noi stessi. Nello scrivere una semplice poesia ci ritroviamo invece immersi nel nucleo di questi interrogativi arcaici e così familiari. Solo con la poesia possiamo tentare di avvicinare, sentire prossimi, abbracciare tutti i nostri dubbi, diventando una vivente domanda, che solo una poesia sa svelare accettandone il mistero, l’alterità, custodendo tutto questo in un solo verso.

 

  1. Cosa ci dici della tua raccolta “Spiragli”? Cosa vedi negli spiragli?

Una raccolta segnata dal senso di incompiuto. Rispetto al mio modo di scrivere un vero e proprio spartiacque. Prima le mie raccolte passate erano segnate dall’ispirazione indubbiamente, ma dopo anche da un lungo periodo di labor limae sul testo scritto. La fase intuitiva andava di pari passo a quella più riflessiva e artigianale. Questa raccolta invece nasce dopo un periodo di confusione, di cosiddetto blocco dello scrittore, di allontanamento dalla poesia e dalla scrittura in generale, un momento di siccità creativa e come un acquazzone, che giunge propizio, questa raccolta è stata scritta senza troppi rimaneggiamenti in qualche giorno “matto e disperatissimo” di stesura. Sono tutte poesie brevi, essenziali, che ricordano la poesia ermetica occidentale e molto anche quella orientale, gli haiku giapponesi per esempio. A differenza però di questo modo di intendere la poesia come folgorazione on breccia nell’assoluto, in spiragli la cifra del contenuto sta nella mancanza, nella frammentarietà, di una storia e di un’ispirazione che non si ricompone, se non per brevi e flebili spiragli. Un momento grave e leggero. Un delinearsi della forma nell’assenza, nella lacuna, nel bianco del foglio bianco che tutto assorbe nel suo oblio di purezza. Non ho più letto questi spiragli, non voglio vedervi più niente, procedo oltre, sono molliche di pane che ho gettato per ritrovare il cammino in un labirinto interiore. Non so se sono uscito definitivamente, ma non si ripassa sulle stesse orme, c’è sempre il rischio di perdersi o tornare all’inizio.

 

  1. Dove hai scritto questa poesia? Cosa ci dice?

Sterpi e sabbia,

relitti d’infinito,

nulla marea.

 

Questa poesia come le altre inserite in Spiragli le ho scritte nella mia stanza, in pochi giorni di competo assorbimento nella scrittura, facendo riaffiorare alla mente momenti, flussi di coscienza, che sentivo in sospeso tra il non detto e il dire, lasciando che la loro pesantezza naturale li portasse a spiccare il volo verso la pagina per poi arenarsi in questa spiaggia bianchissima di un’isola sperduta. Molto spesso sono andato al mare, anche d’inverno, periodo che amo, per andare sulla sabbia in riva vicino alle onde che si infrangono, per far riemergere da quelle maree altre maree sepolte dentro di me, che mi ricordano addii silenziosi consumati sui litorali del mar tirreno in toscana, passeggiate con amici ora persi o dimenticati, relitti che l’esistenza ti riporta a galla alla mente ogni tanto, in questo nulla che è la memoria a volte, ma così pieno di sentimenti inespressi, emozioni ondeggianti sulla marea che non ha fine, della mia mente e del mio cuore.

 

  1. Quale mito Emanuele?

Non è la luna

negli strappi del mito

che mi accompagna.

 

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna? Così Leopardi nel bellissimo “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” si rivolge alla luna, immagine di un qualcosa di sempiterno e assoluto, rispetto alla fragilità e alla finitezza della vita umana. Il mito è quello di un qualcosa in cui le cose non finiscono, la speranza che un qualcosa di eterno permanga nelle anime, nelle stagioni, nei battiti di un cuore. Il divenire e la finitezza ci rammentano sempre che non siamo più chi eravamo e che non siamo ancora chi saremo. In questo scarto o strappo sofferente e magnifico per certi versi sta tutto il dilemma di tutti noi, che ricerchiamo un qualcosa di eterno che ci ascolti, ci guidi, ci illumini nel notturno dell’esistenza. In questa poesia dico che non è la luna, forse altro, forse nulla, che mi accompagna in questo strappo che lacera il mito, lo rende un crepuscolo di idoli, non è la sua luce che guardo per ricercare l’infanzia di ciò che adesso è remoto. Quando siamo bambini le cose sembrano in una grazia che non si crede debba mai svanire, certi equilibri tra le persone, i pensieri, le emozioni e le epoche si credono stabili, ci si affida a loro con leggerezza, ma sicurezza infantile. Ma il destino del mito è quello di tramontare inevitabilmente, rendere ombra ciò che si credeva fosse il sole, vivere nella perdita, per poi forse risorgere, chissà, magari semplicemente e solamente in un inutile verso, di una tentennante poesia.

 

Ringrazio Emanuele per avermi donato le sue parole.

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