Questo articolo è apparso, in versione leggermente ridotta, su La Verità del 19 gennaio 2019.
Nel commentare il controverso «Patto per la scienza» firmato da Beppe Grillo e Matteo Renzi sotto gli auspici del professor Burioni (ce ne siamo già occupati qui), Ivan Cavicchi ha scritto che l’idea di scienza che vi si esprime è «vecchia e superata», «un rottame d’altri tempi che nonostante ciò ha la pretesa di proporsi come metafisica, cioè valore assoluto, incontestabile, autoritario e impositivo».
In effetti, in quel breve testo si chiede ai politici firmatari un impegno duplice e contraddittorio: da un lato di elevare la scienza a «valore universale di progresso dell’umanità» (intento lodevole ma inutile, non avendo mai alcuno affermato il contrario), dall’altro di non prestarsi «a sostenere o tollerare in alcun modo forme di pseudoscienza e/o di pseudomedicina che mettono a repentaglio la salute pubblica» e, quindi, di «fermare l’operato di quegli pseudoscienziati che con affermazioni non dimostrate e allarmiste creano paure ingiustificate tra la popolazione nei confronti di presidi terapeutici validati dall’evidenza scientifica e medica». Come se la scienza si riducesse solo alla medicina e alla salute pubblica, oltre tutto (qui una critica epistemologica dello stesso Cavicchi, quiuna di Pier Paolo Dal Monte).
La contraddizione del messaggio risiede chiaramente nel fatto che il rispetto della scienza come «valore universale di progresso» non può coniugarsi con il suo assoggettamento a forze politiche che ne censurino i risultati o ne «ferm[ino]» i protagonisti. Se il principio di autorità è estraneo al metodo scientifico, tanto più deve esserlo quando si dota degli strumenti repressivi di uno Stato. Molte delle nozioni e delle pratiche scientifiche oggi riconosciute sono state, in qualche momento della storia, eterodosse perché nuove e non suffragate dalle esperienze successive. Altrettante convinzioni un tempo «ufficiali» (come, restando nella medicina, i numerosi farmaci ritirati dal commercio) oggi non sono più accettate grazie al lavoro di chi ha rimesse in discussione, spesso con fatica. Per farla breve, se fosse avvenuta anni fa, l’entrata a gamba tesa della politica nel mondo scientifico e il suo ergersi a gendarme di una parte o dell’altra del dibattito – inevitabilmente, della più forte – avrebbe rallentato e intralciato il miglioramento delle conoscenze e il processo critico di cui si nutre la ricerca, fino ad arrestarli.
All’analisi di questa contraddizione ho dedicato buona parte di Immunità di legge, il libro che ho firmato nel 2018 con Pier Paolo Dal Monte sul tema delle vaccinazioni obbligatorie (a cui il «Patto», al netto dei suoi voli pindarici, allude palesemente fin dai curricula dei suoi proponenti). Già nel sottotitolo, suggerivo che la velleità di mettere «la scienza al governo» avrebbe comportato il «governo – cioè la riduzione in servitù – della scienza» da parte del potere politico, per imporre obiettivi inevitabilmente politici: «Mentre giura di mettersi al servizio de “la scienza” e delle sue certezze – scrivevo – la politica ne stravolge il senso per avvalorare i propri decreti. Nei fatti, accade quindi che è invece il metodo scientifico a doversi piegare agli obiettivi di chi governa, sicché l’invito a “votare la scienza” si rivela essere tutt’altro: un attacco di tipo opportunistico con cui i decisori politici usurpano l’autorevolezza faticosamente maturata nei secoli dal discorso scientifico per farla propria e ammantarsi della sua luce riflessa».
L’idea è tutt’altro che nuova. Né è nuova l’intuizione degli effetti oppressivi, distopici e pericolosi di questo falso inchino alla scienza per poterla disciplinare e reprimere. Nel 1932 lo scrittore e intellettuale britannico Aldous Huxley, già professore di francese di George Orwell a Eton, pubblicava il suo romanzo più famoso: Il Mondo Nuovo (The Brave New World), in cui immaginava un futuro dove gli esseri umani sono prodotti in laboratorio, le caste sociali sono geneticamente determinate fin dalla nascita e non esistono più né famiglia né religione né vecchiaia, perché la morte arriva per tutti al compimento dei sessant’anni di età, per eutanasia (quest’ultima fu idea poi ripresa dal mentore di Emmanuel Macron, Jacques Attali, già banchiere e consigliere di François Mitterand, in una famosa intervista del 1981, dove predisse che sarebbe stata una «regola della società futura»). Nel Mondo Nuovo le persone vivono in pace sotto un’unica dittatura mondiale e coltivano una sorta di felicità o spensieratezza grazie al progresso tecnologico, alla libertà sessuale incoraggiata fin dalla prima infanzia, a un incessante indottrinamento «ipnopedico» e, soprattutto, all’uso del soma, una droga sintetica priva di effetti collaterali che provoca benessere e oblio, fornita gratuitamente dallo Stato.
Dopo varie peripezie, i tre protagonisti del romanzo – il timido e complessato Bernard, il letterato Helmholtz e il “selvaggio” John, prelevato da una riserva del Centro America – sono tratti in arresto per avere attentato all’ordine sociale distruggendo grandi quantitativi di soma, nell’intento di risvegliare le coscienze dei loro concittadini. Finiscono così al cospetto del governatore dell’Europa Occidentale, Mustapha Mond, uomo di profonda cultura e intelligenza che si intrattiene con loro prima di mandarli in esilio su un’isola remota. Mond spiega loro i delicati equilibri sociali del Mondo Nuovo. Non solo l’arte, dice, deve essere repressa in quanto fonte di emozioni e interrogativi che minerebbero la serenità degli individui, ma anche la scienza: «la scienza è pericolosa. Noi dobbiamo tenerla con la massima cura incatenata, e con tanto di museruola».
Helmholtz reagisce sbalordito. «Ma come! Noi diciamo sempre che la scienza è tutto. È un ritornello ipnopedico». Che, aggiunge Bernard, va ripetuto «tre volte alla settimana, dai tredici ai diciassette anni». E poi, «tutta quella propaganda scientifica che facciamo all’università…».
«Sì, ma quale scienza?» chiede Mond. «Io ero un ottimo fisico, ai miei tempi. Troppo bravo, bravo quanto basta per rendermi conto che tutta la nostra scienza è una specie di ricettario, con una teoria ortodossa che nessuno ha il diritto di mettere in dubbio, e una lista di ricette alla quale non si deve aggiungere nulla se non dietro permesso speciale del capocuoco. Adesso il capocuoco sono io. Ma una volta ero un giovane sguattero curioso. Mi misi a fare un po’ di cucina a modo mio. Cucina eterodossa, cucina illecita. Un po’ di scienza reale, insomma».
«E poi che accadde?» chiede Helmholtz.
«Più o meno ciò che sta per accadere a voi giovanotti. Sono stato sul punto di essere spedito su un’isola».
Sarebbe superfluo chiosare questo estratto che, rispetto al «Patto» burioniano, ha solo il pregio di un’esposizione letteraria migliore e di una consapevolezza didascalica che manca alla sua più moderna versione notarile. Già negli anni Trenta era chiaro all’autore che la «propaganda» ossessiva e ritornellante della scienza («è tutto») non è solo compatibile con la sua repressione di Stato, ma serve a sostituirla, idealizzandola, con una versione più addomesticata e puerile («quale scienza?», non certo la «scienza reale»). Che, cioè, chi vuole incatenare gli uomini deve incatenare la scienza, non può permettersi di lasciarla agli scienziati.
Il Pedante