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Amo | Adriana @Lilithins legge Majakowskij

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VLADIMIR MAJAKOVSKIJ – 1893-1930

 

 

Terza parte:  AMO

 

Gli archi delle costole non reggono il peso.

Scricchiola la cassa toracica sotto il peso“.

 

AMO

1922

 

Di solito così

 

A ogni nato di donna è stato concesso l’amore,

ma tra impieghi,

entrate

e il resto

giorno per giorno

s’inaridisce il terreno del cuore.

Sul cuore è infilato il corpo,

sul corpo la camicia.

E come se non bastasse

un tale –

idiota! –

ha fabbricato i polsini

e ha intriso d’amido lo sparato.

Verso la vecchiaia, ci si ripensa di soprassalto.

La donna s’imbelletta,

l’uomo si sbraccia come un mulino, metodo Müller.

Ma è tardi.

La pelle moltiplica le rughe.

L’amore fiorisce un po’,

fiorisce un po’

e s’aggrinza.

 

Ragazzaccio

 

Io d’amore sono stato dotato a sufficienza.

Fin dall’infanzia

arruolano

la gente alla fatica.

Io, invece,

scappavo in riva al Rioni

sempre a zonzo,

senza voglia di fare un accidenti.

Si arrabbiava la mamma:

“Che discolo! ”

Il babbo minacciava con la cinghia.

Ma io,

ricco d’un biglietto falso da tre rubli,

giocavo con la soldataglia, sotto lo steccato, a “tre fogliette”.

Senza l’impaccio della camicia

senza quello delle scarpe,

mi arrostivo alla calura di Kutais.

Voltavo al sole ora il dorso,

ora il ventre,

fino a quando qualcosa mi cantava nella bocca dello stomaco.

Il sole si stupiva:

“Non lo vedi neanche tant’è piccolo,

eppure,

ce n’ha di cuoricino!

E quanto si dà da fare con quel cuore!

Come fa

questo soldo di cacio

a trovare dentro di sé

tanto posto

per me,

per il fiume,

e per queste rocce chilometriche? “.

 

Adolescente

 

Per i ragazzi c’è un sacco di roba da studiare.

S’insegna la grammatica a scemi d’ambo i sessi.

A me invece

m’hanno scacciato dalla quinta classe.

Hanno cominciato a sbattermi nelle prigioni di Mosca.

Nel vostro

piccolo mondo

di appartamenti

crescono ricciute liriche per le camere da letto.

Che vuoi trovarci in queste liriche da cani pechinesi?

A me, per esempio,

ad amare

l’hanno insegnato

nelle carceri di Butyrki.

M’importa assai della nostalgia per il bosco di Boulogne,

e dei sospiri davanti ai panorami marini!

Io, ecco,

m’innamorai

dallo spioncino della cella 103,

di fronte all’”Impresa pompe funebri”.

Chi vede tutti i giorni il sole

dice con sufficienza:

“Cosa saranno mai quei quattro raggi!”.

Ma io

per un giallo illuminello

sopra un muro

avrei dato allora qualunque cosa al mondo.

 

La mia università

 

Conoscete il francese.

Sapete dividere.

Moltiplicare.

Declinare mirabilmente.

E va bene, declinate pure!

Ma dite,

e cantare d’accordo con una casa,

lo sapete?

La lingua dei tram la capite?

Gl’implumi dell’uomo,

appena con un po’ di penne,

pongono mano ai libri,

ai quinterni dei quaderni.

Io imparai l’alfabeto dalle insegne,

sfogliando pagine di ferro e di latta.

Loro prendono la terra,

la rapano,

la scorticano

e insegnano,

riducendola tutta a un mappamondo.

Ma io

Imparavo la geografia dai fianchi,

mica per niente

mi buttavo a terra

per dormire!

Gli Ilovaiski agitano problemi scottanti:

“Era proprio rossa la barba di Barbarossa? ”

Facciano pure!

Io non frugo in sciocchezze polverose.

A me basta conoscere ogni storia di Mosca!

Prendono a studiare Dobroliubov (per odiare il male),

ma hanno contro la famiglia,

e mugola tutto il casato.

Io

mi sono abituato

sin dall’infanzia a odiare i grassi,

sempre pronti a vendersi per un pranzo.

Ben istruiti,

s’apprestano

a piacere alle signore,

e pensierini tintinnano nelle loro piccole fronti di bronzo.

Ma io

parlavo

soltanto con le case.

Miei soli interlocutori, i serbatoi d’acqua nelle strade.

Con l’abbaino attento ad ascoltare,

i tetti afferravano le parole che gli lanciavo nelle orecchie.

E poi

cigolavano

della notte

e l’un altro,

dimenando la loro banderuola.

 

Adulto

 

Per gli adulti gli affari.

Tasche gonfie di rubli.

Amare?

Prego!

Per un centinaio di rubli.

Ma io,

senza dimora,

le manacce

ficcate

nella tasca sfondata

bighellonavo con tanto d’occhi aperti.

È notte.

Voi indossate l’abito migliore

e riposate l’anima sulle mogli o le vedove.

Me, invece,

Mosca mi soffocava negli amplessi

col suo anello senza fine di Sadovye.

Nei vostri cuori,

negli orologi

fanno il loro tic tac le amanti.

Che estasi, le coppie nelle alcove!

Io il selvaggio pulpito delle capitali

seguivo,

sdraiato su Piazza della Passione.

Sbottonato sul petto,

col cuore quasi fuori,

m’apro al sole e alle pozzanghere.

Entrate con le passioni!

Venite con gli amori!

Ormai non è più in mio potere controllare il cuore.

Conosco dove hanno di casa il cuore, gli altri.

Dentro il petto, si sa.

Per me invece

è impazzita l’anatomia.

È tutto cuore,

romba dappertutto.

Oh, quante,

di sole primavere,

hanno spinto in vent’anni dentro il mio incendio!

Quel carico non consumato è insopportabile.

E non insopportabile così,

tanto per fare un verso,

ma letteralmente.

 

Che cosa n’è venuto fuori

 

Più di quanto era possibile,

più di quanto fosse necessario,

come

in sogno un incubo poetico,

quel groppo del cuore crebbe come una montagna:

una montagna d’amore,

una montagna d’odio.

Sotto il peso,

le gambe

traballavano.

Sai

se io

sono ben piantato,

eppure

mi trascino ridotto a un’appendice cardiaca

curvo per tutta la larghezza delle spalle.

Mi gonfio col latte dei versi,

non riesco a spargerne fuori;

non c’è chi ne voglia, pare, e di nuovo mi gonfio.

Mi ha spossato la lirica,

nutrice del mondo,

iperbole

del prototipo di Maupassant.

 

Chiamo

 

Presi a sollevarlo come un atleta,

a portarlo da acrobata.

Come gli elettori si chiamano a un comizio,

come i villaggi

negli incendi

si chiamano con campane a martello,

io chiamavo:

“Eccolo!

Ecco!

Prendete! “.

Quando

una simile mole ansimava

senza badare a niente,

in mezzo alla polvere,

in mezzo al fango,

in mezzo alla neve accumulata,

il damerume

via da me

scartava come un razzo.

“Poi noi ci vorrebbe qualcosa di più piccolo,

qualcosa come un tango…”

Non ce la faccio più,

ma lo porto lo stesso.

Vorrei scrollarmelo di dosso,

ma so

che non lo lascerò!

Gli archi delle costole non reggono il peso.

Scricchiola la cassa toracica per lo sforzo.

 

Tu

 

Poi sei venuta tu,

e t’è bastata un’occhiata

per vedere

dietro quel ruggito,

dietro quella corporatura,

semplicemente un fanciullo.

L’hai preso,

hai tolto via il cuore

e, così,

ti ci sei messa a giocare,

come una bambina con la palla.

E tutte,

signore e fanciulle,

sono rimaste impalate

come davanti a un miracolo.

“Amare uno cosi?

Ma quello ti si avventa addosso!

Sarà una domatrice,

una che viene da un serraglio! ”

Ma io, io esultavo.

Niente più

giogo!

Impazzito dalla gioia,

galoppavo,

saltavo come un indiano a nozze,

tanto allegro mi sentivo,

tanto leggero.

 

Impossibile

 

Da solo non ce la faccio,

non riesco a portare un pianoforte

(figurati poi

una cassaforte).

E se non una cassaforte

e non un pianoforte,

come ce l’avrei fatta,

dopo averglielo ripreso, a portare il cuore?

I banchieri insegnano:

“Noi siamo ricchi sfondati.

Se le tasche non bastano,

c’è posto nella cassaforte”.

Ho rinchiuso

dentro di te

l’amore,

tesoro nascosto dentro il ferro,

e me ne vado in giro

felice come un Creso.

E magari,

se proprio mi va,

prenderò un sorriso,

o mezzo,

o anche meno,

e in allegra compagnia

ne spenderò in metà notte

per un quindici rubli di spiccioli lirici.

 

E così anche a me

 

Le flotte: anche loro convergono verso il porto.

Il treno: anche lui corre verso la stazione.

E io verso di te a maggior ragione,

perché ti amo,

mi sento proteso e attratto.

L’avaro cavaliere puškiniano scende

a godersi nel sotterraneo i suo beni e a frugare.

Così io

a te ritorno, amata.

Mio è questo cuore,

e io godo di quanto è mio.

Voi ritornate a casa tutti lieti,

a raschiarvi di dosso

la sporcizia, radendovi e lavandovi.

Così io,

tornando a te.

Forse

non vado a casa mia io,

quando vengo da te?

Il grembo terrestre attende i terrestri.

Noi volgiamo alla mèta finale.

Così io

verso di te

tendo inesorabilmente:

anche appena separati,

anche appena abbiamo finito di vederci.

 

Conclusione

 

Niente cancellerà via l’amore,

né i litigi

né i chilometri.

È meditato,

provato,

controllato.

Alzando solennemente i versi, dita di righe,

lo giuro:

amo

di un amore immutabile e fedele.

 

(Traduzione di G. Crino e M. Socrate)

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