Articolo di Adriana Bolfo

Il quarto treno mi sbarca a Porta Genova. 30 maggio 2024

P er chi viene da fuori (i “furesti”), Milano ferroviaria è, grandemente, la Stazione Centrale detta La Centrale, quella imponente del 1929 e farcita, nell’ultima modernità, di un labirinto interno (inferno?) di tapis roulant inclinati e negozi; Rogoredo, primo contatto, invece molto tranquillo, con la città, per chi arriva dall’immediato sud lombardo-piemontese-ligure (due rampe sotto, linea 3 della metro per il centro e oltre); infine Lambrate, per treni regionali e interregionali diretti a nord-est.

Greco-Pirelli, San Cristoforo e Porta Genova, altre stazioni urbane, e non son tutte, accompagnate, come le precedenti, dal prenome Milano, baluginano come entità indistinte nella mente degli estranei, sempre che detti estranei ne sospettino la poco ubicabile esistenza.

Ma…ma…ma…

Il senso di arrivare oggi, per la prima volta in treno a Porta Genova, dopo lustri di sbarchi a Rogoredo o in Centrale?

Amici che di Milano “ne sanno” dicono che, nel tempo, la zona, prima periferia negletta, è diventata alla moda, ma mai per l’ignara è stato questo motivo socio-antropo-economico a indirizzarla alla piazza antistante la stazione; bensì, uscita dalla M2, linea verde della metro, la suddetta ignara accelerava il transito pedoviario al Mudec (Museo delle culture, aperto nel 2015, anche con esposizioni temporanee), ben al di là della ferrovia, nei capannoni riattati ex Ansaldo.

Nel passato recente il motivo era, insomma, la meta non molto lontana da qui.

E , volendo, oltre il Mudec si arrivò a San Cristoforo: chiesetta affrescata del Quattrocento, pontino sull’acqua, da sito involontarimente denigratorio definito “passerella”, e lungoacqua anonimo che l’ignara scoprì essere il Naviglio Grande grandemente zanzaroso.

In effetti, per mio precedente uso e consumo, motivo di approdare in treno a Porta Genova non c’era stato, stante l’esistenza della Genova-Milano, più correttamente Milano-Genova via Pavia-Voghera-Tortona, con fermate urbane a Rogoredo, Lambrate e Centrale, quella dove finiscono i binari (“stazione di testa”). Ma oggi, oggi, il senso qual è? Quale motore mi ha spinta a quattro treni (per Stoccarda, forse uno o due bastano), Genova-Alessandria, Alessandria-Casale Monferrato, Casale Monferrato-Mortara e Mortara-Milano Porta Genova?

IL SENSO di arrivare in treno da Genova a Porta Genova?

ARRIVARE IN TRENO

per

ARRIVARE IN TRENO.

Il punto necessita di spiegazione.

Da maniaca frequentatrice di treni, o frequentatrice manica di treni (libero sintagma in libera mania), ero stata colta da subitanea nostalgia preventiva – in previsione di quando tale stazione a me ignota non ci sarà più – col presupposto non del tutto fondabile che ci sarò invece ancora io e ancora capace di nostalgia – , oltre che dal rammarico, sempre preventivo, dell’impossibilità materiale, in quel punto del tempo futuro, di soddisfare la curiosità salita alla coscienza al momento della notizia.

NOTIZIA…quale?

Lo smantellamento della stazione di Porta Genova, una volta completata la M4 (linea blu della metro, attualmente da San Babila, centro centrissimo, a Linate, aeroporto urbano) fino a San Cristoforo, altra zona un tempo considerata periferica, e a Porta Genova, appunto.

Dunque, curiosità di conoscere “com’era”, com’è ora, finché c’è.

IN TRENO. Perché com’è una stazione o, più correttamente in punta di grammatica, come sia, è vera esperienza e conoscenza solo in seguito a relativo approdo in treno o, alla peggio, partenza da essa con detto mezzo.

E cco dichiarata, infine, la ragione dell’apparente incongruenza, disfunzionale rispetto a Spazio-Tempo ed eventuali altre Entità Maiuscole della cui formulazione precisa sono incapace, di arrivare in treno da Genova Piazza Principe, detta Principe (foto), e negli orari e nei cartelli Genova P.P. a Porta Genova (Milano), dove sembra che un tempo qualcosa cominciasse: la linea ferroviaria. Per i partenti dalla mia cittadella, nota avara anche di spazio che non c’era e non c’è, la Milano di fine Ottocento (che in un certo momento del Novecento avanzato diventò “da bere”, secondo una formula passata di moda e ora solo presente tra i ricordi di qualche vecchierel canuto, e stanco soprattutto di scempiaggini), la Milano-Milano stazione ferroviaria era Porta Genova, se da Genova si volevano toccare anche Alessandria (Piemonte) e Mortara (Lombardia) e precisamente da Principe dove sono partita.

L e ferrovie che dalle pianure approdano a Genova (Genova Principe), diventano, per ragioni di spazio, la ferrovia che, nei suoi ultimissimi metri, e tra due delle innumeri gallerie presenti d’ufficio in Liguria, risulta parallela all’acqua del porto ma già vista un poco dall’alto, in un posto-non-solo-porto in cui molto è in alto e “in salita”, come nei ricordi del poeta livornese Caproni, che ricorda la realtà.

Dai binari, le genti più o meno spaventate, qui in “sbarco” o in fuga, potevano balzare alla sottostante Stazione Marittima (di tale aspetto dal 1930, in realtà più annosa), su piroscafi diretti alle Americhe (“Meriche”), come moltissimi fecero fino al secondo dopoguerra e parecchi non per fame, ma per brutta bruttissima fama duramente guadagnata in vario Nord germanico-centroeuropeo e pertanto da quelle terre anelanti a dileguarsi.

In realtà, la prima linea ferroviaria dal Settentrione italico per Genova mia fu la Torino-Asti-Alessandria in pochi anni costruita (1848-1853), voluta dal conte di Cavour per merci agricole piemontesi comprese quelle dei suoi possedimenti, mentre da Milano a Genova si arrivò un po’ dopo (1867), passando per Novi Ligure (provincia di Alessandria), stazione di incrocio tra le due linee. Se si considera che altri centri della Padana, come Piacenza e Bologna, potevano essere interessati allo sbocco al mare, ecco l’importanza dell’approdo via terra a Genova dalla zona milanese abbellita, dal 1876, dalla porta del medesimo nome, sebbene la stazione abbia assunto il nome di Porta Genova solo nel 1923. Almeno, ciò sembra desumersi da vari siti online, salvo errore di chi li ha consultati (la tapina in cerca di stazioni moriture) o di chi vi ha scritto – e, in caso comprovabile, qualcuno corregga.

Il primo centro importante a sud del “gran Milan” è in realtà Pavia (per i Romani conquistatori, Ticinum) e forse per questo la stazione ferroviaria volta in direzione sud dove da Milano si allontana il Ticino, fiume tuttora di Pavia, era in origine denominata, sempre stando ad alcuni siti, Porta Ticinese; poi, sì, ancora oltre, ma proprio oltre, dopo che la pianura va a sbatter contro rilievi così severi da parer montagne e ricchi solo di gallerie, si raggiunge anche dalla Lombardia quella mia città notoriamente avara di tutto tranne che di acqua di mare, che ai piemontesi di Paolo Conte fa paura (“quel mare scuro che si muove anche di notte e non si ferma mai”). Porta Genova-nel-senso-di-porta era, come le numerose porte milanesi, molte delle quali di molto più antiche, limite e segnacolo della cinta daziaria, oltre che segno solenne dell’ingressso in tanto Milan. Al momento ne restano appunto i caselli che furono del dazio.

MA I TRENI…I TRENI?

Completata nel 1870, la linea ferroviaria Milano-Mortara aveva allora la sua necessità economica, poiché i binari, a tratti lungo i navigli, servivano le numerose fabbriche della zona e le servirono per tutta l’epoca della rivoluzione industriale recentemente archiviata: i prodotti delle fabbriche partivano dalla vicina stazione di San Cristoforo, invece le persone da quella che fino al 1923 si chiamò Porta Ticinese, l’ancor per poco esistente, oggi, stazione di Porta Genova. Da Mortara poi, produzione e persone potevano venir disseminate per la vasta pianura – disorientante, per liguri che vivono allo stretto (tutti) – e, se necessario, spingersi a completare il cammino inverso al mio odierno. Pertanto, le terre di Piemonte, Lombardia e Liguria risultarono collegate, quasi prefigurazione di quell’insieme che, nel secondo dopoguerra, nella seconda Italia, unita e repubblicana, i capoluoghi di regione formarono: il triangolo industriale TO-MI-GE. (Pregasi astenersi spiritosi che leggano GE-MI-TO, gloriandosi del poco felice ma ohinoi veritiero gioco di parole assemblato su triste triplice realtà industrial-produttiva dismessa. Saremo pure santi, navigatori, poeti, camerieri, albergatori e ciceroni alias guide turistiche, ma è noto, e non ancora contestato in punta di reale, che la potenza economica di un luogo la fanno, in genere, industria e commercio).

Dunque, oggi. Stamattina.

A Porta Genova di Milano, aperta al sud marittimo viciniore, ma non proprio tanto vicino.

D unque, spedizione da Genova marina e marinara alla “sua” porta-in-forma-di-stazione molto extraurbana e molto settentrionale, una delle attuali stazioni di Mediolanum – nome latino, perché gli anticoromani furono, dopo i Galli Insubri, anche qui. Milano città pure romana, chi lo direbbe? Ma sic erat, fuit e, per alcune vestigia come le Colonne di San Lorenzo, ancora est.

A Porta Genova (che persisto a non mostrare) arrivo per curiosità di vagabondaggi in nulla illustri e illustrati, sì, ma anche per una sottigliezza in più: mania puntuale particolare, concentrata e pervadente, tanto vario e inaspettato è un pur banale essere umano quotidiano, precisamente quello circoscritto a me stessa. Mania linguistico-realistico-formale, o sostanziale. Vi gioca il personale e forse inusitato desiderio di vedere a quali realtà (luoghi) corrispondano nomi nella testa sedimentati o in essa testa svolazzanti – si sa che le parole, quindi anche i nomi di luoghi, volano. Non solo il partecipabile desiderio di visitare luoghi ignoti, pure questo operante, specialmente i luoghi “poco usati” concedibili a genovese ruvida e un tantino “sarvega”, selvatica, isolata; ma, più esattamente, il desiderio di vedere LE COSE corrispondenti ai NOMI, considerando reali entrambi gli insiemi, per comodità di pensiero o bisogno di ancoraggio al qui e ora.

Alla radice di tale abituale inclinazione posso tranquillamente sospettare secoli di dispute filosofiche radicate come minimo nell’intellettualissimo Medioevo (Medio Evo?) o anche prima, tra RES (cose) e VERBA (parole) o NOMINA (nomi), quali esistenti prima e quali dopo, o tra loro contemporanei? e sempre in mente Dei, mente, che se esiste, tempo non dovrebbe avere o non ha – come al momento almanacco e ricamo, priva di abilità manuale, nella mia quotidianità diurna e diuturna. Oziosa e opaca, va da sé. Per capziosamente stabilire origini e priorità di tali questioni, temo ormai solo interiori e massicciamente inconcludenti, occorrerebbero spasmodici compulsatori ed esegeti millimetrici di Tomaso d’Aquino e Anselmo d’Aosta, e, fuori dal Medioevo ma in avanti, di Hume e di Locke, mentre, indietro nel tempo, ben meriterebbero la partecipazione ai lavori, minimo minimo, gli aficionados di Platone, sorvegliati a vista che non facessero troppi voli, dagli alfieri di colui che risulta, nelle parole del sempiterno Dante fiorentino, “maestro di color che sanno”, cioè Aristotele.

Tali gli svolazzamenti, goffi e cautelosi (“quatelosi”, secondo Camilleri) di donnetta domestica che non se ne capisce e, pertanto, non insisto.

A PPRODO DEL DESIDERIO

Il Mortara-Milano, mio quarto recente treno, finisce qui: i binari, di poco protesi innanzi al suo muso, vengono troncati, nel loro estendersi estremo, da rete a maglie larghe però invalicabile, oltre la quale transitano a piedi persone di cui avevo fatto parte la prima volta raggiunta la zona in metro 2 per poi raggiungere il già nominato Mudec, quando, data un’occhiata dall’esterno al fabbricato della stazione, il solo rammarico era stato l’impedimento al grazioso cavalcaferrovia verde chiuso da cancelletti, uno per parte, in tinta. E in tinta avevano da essere, in zona alla moda. Per star sul sicuro, è la medesima tinta dell’intero apparato in ferro che, com’è fatto, potrebbe piacere al Van Gogh del ponticello su fiume della Provenza.

Sì, certo, il salto temporale, oltre che materiale… ma non sottilizziamo. E io sono io, non un pittore, a veder per diletto e gioco somiglianze pur sempre opinabili.

E STERNO: operai dei lavori metropolitani in corso e persona visibilmente povera allungata su panchina, a cui, in silenzio, auguro tetto e pareti almeno per la notte e il brutto tempo, quando che sia. INTERNO: persone poche, aria come la mia e qualcuna peggio, per nulla da “Grandi Stazioni” – pubblicità trionfante, negli ultimi anni, dei lavori ferventi qua e là appunto in stazioni già importanti per futura esponenziale importanza. Giallo in bacheca: l’orario “cartaceo” – quello che, per gli attuali vetusti prima che tali diventassero, era “l’orario”- rende edotti dei convogli da stazioni dal cui territorio sono afferiti, ai treni solcanti la pianura, coloured con motocicli per bagaglio e un bagaglio, a sua volta porta-bagaglio futuro (prossimo), su ogni motociclo, grandi contenitori anch’essi colorati, ma inconsapevoli, per il delìvero fendimetropoli che è il lavoro dei portatori dei veicoli, con qualunque tempo: lungo orario per corto guadagno, temo, come anche non coloured qui e altrove.

I deliveranti stanziati più lontani, chissà se accasati nel senso di forniti di abitazione, li hanno portati i treni dal Piemonte, due, (da Alessandria, da Casale Monferrato e stazioni loro intermedie) e, terzo, da Mortara già lombarda, “6 km dal confine con la provincia di Novara e il Piemonte” – informa, con palese stridenza logica, wiki.

#tuttoqui&tuttoqua

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