Articolo di Adriana La Trecchia
Questa celebre frase scritta da Gertrude Stein nel 1913 nel suo poema Sacred Emily molto spesso è stata intesa come “Le cose sono quello che sono”, ma considerando la posizione della Stein nei confronti dell’arte e della vita, tale interpretazione appare improbabile. Accanto a questo significato ne è stato attribuito un altro: “…anche il più semplice nome può dare luogo ad una serie di associazioni di immagini e di emozioni”. In primis bisogna considerare la figura di Gertrude Stein, passata alla storia non tanto come poetessa e scrittrice, ma come musa dell’arte, o meglio promotrice di altri artisti nei primi decenni del Novecento a Parigi. La sua essenza è magistralmente interpretata dalla premio Oscar Kathy Bates nel film di Woody Allen, Midnight in Paris, ossia matrona del salotto che apriva ad artisti del calibro di Matisse, Picasso, Cézanne, e poi Braque, Pound, Hemingway, e la coppia più ambita dei ruggenti Anni venti parigini, Zelda e Francis Scott Fitzgerald. Il genio di un artista, qualunque sia la materia umanistica di riferimento, spesso, non sempre, esorbita da quella che è la sua biografia o fortuna critica contemporanea alla sua vita. Infatti, se da un lato la memorabile donna è figura da incorniciare nella storia dell’arte contemporanea, dall’altro come scrittrice non fu mai apprezzata e amata a tal punto da diventare un’icona di riferimento. Se Gertrude Stein, nata ad Allegheny in Pennsylvania nel 1874, ebbe l’ambinzione professionale di essere poetessa e scrittrice, fu riconosciuta dalla critica quale protettrice di artisti e scrittori. Questo aspetto è ben evidenziato nel film alleniano del 2012, dove la figura poliedrica e moderna della Stein è raffigurata anche nel suo carattere materno, che accoglieva i migliori talenti in giro sia per il loro genio sia per le loro insicurezze. Con il suo fare fermo e tranquillo sapeva dare quel consiglio utile ad esaltare le più brillanti capacità. Il famoso verso sembra la banale constatazione che un elemento può essere solo quello in quanto tale, senza fronzoli o simbolismi, ma la sua ripetività ben si fonda con la poetica del suo pittore cubista tanto amato, secondo cui, per quanto puoi scomporre ciò che vedi e ricomporlo sotto tutti i punti di vista, quello che apparirà non è che l’oggetto reale.In ogni caso c’è dello snobismo nel continuare a leggere e rileggere i testi steineiani che sono quasi incomprensibili, ma non nel senso di funambolismi insensati, bensì come scritti che presentano un sovrasenso. Per i traduttori Gertrude Stein è un rompicapo, per cui tradurla effettivamente significa interpretare, decifrare. Secondo l’anglista Nadia Fusini: “Lotta contro il passato, Stein. E si dedica senz’altro alla scrittura avendo del tutto spogliato la lingua di ogni compito realistico, naturalistico, di comunicazione. Semmai, accentua il divorzio tra significante e significato, e va fino all’estremo opposto; coniugando una piena significazione a un grado di comunicazione tendente a zero”. Circa il celeberrimo verso, la stessa Gertrude lo ha spiegato in una conferenza americana del 1934, per precisare che la poesia si regge sul sostantivo, mentre la prosa sul verbo. “Quando dissi. Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa. E poi più tardi questo lo foggiai in un cerchio io feci poesia e che cosa avevo fatto avevo accarezzato completamente accarezzato e chiamato un sostantivo”. Del resto Nadia Fusini ha scritto: “Per tutti i suoi devoti lettori, se c’è qualcosa di sovrumano, di divino in Gertrude Stein è la sua distanza dalle passioni umane più comuni, tra cui quella di comunicare. Noi devoti leggiamo la pagina steiniana avendo accettato la sospensione del significato, e navighiamo a vista in una dimensione di assenza di senso, avendo oltrepassato le colonne d’Ercole del bisogno di assegnare a ogni significante il suo significato, verso il mare aperto di un’avventura in cui la lingua è una sorpresa. In questo modo Gertrude è “sacra”: una forma di autismo felice la rende “superiore”. E noi la veneriamo”. Ciò che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi è la coscienza, intesa come un inevitabile “perchè” relativo a tutte le cose. Rispetto agli altri elementi naturali l’uomo non accetta di esserci e basta, ma vuole sapere il “perchè” e per arrivarci si imbarca nelle assurdità più astruse. Il problema è che le interpretazioni possono essere molteplici, invece una rosa è, punto e basta. Un fiore non ha bisogno di una interpretazione, c’è non come oggetto inanimato e passivo, ma l’esistere è la sua presenza. Il mondo ci precede e ci sopravviverà, in quanto è non in relazione a noi ma al di là di noi. Adesso che l’uomo si è fatto risucchiare in un vuoto frenetico e arido, dovrebbe imparare ad esserci come un fiore di campo. Nel suo diario (meno noto di quello di Anna Frank) Etty Hillesum scrive che se capissimo lo scorrere del tempo, impareremmo a vivere come un giglio di campo. “Non devi mai più negare i tuoi momenti migliori durante quelli peggiori. La maggior parte delle persone è comunque infedele nei suoi momenti migliori. Se sai come assegnare il posto giusto nella tua vita anche al gelo del giorno, non resterai a lungo nel disincanto. Perchè sai che anch’esso fa parte della vita…”.