Il mondo dello sport, e del calcio in particolare, è una piramide spietata: tutti ambiscono alla vetta, ma solo in pochissimi ci arrivano. Ogni ragazzo che gioca nella squadra del quartiere sogna ad occhi aperti correndo dietro al pallone, immagina il suo futuro sui campi dorati della serie A invece che su quelli fangosi della periferia, pensa a quando alzerà quella Coppa con le grandi orecchie come hanno fatto Maldini, Zanetti, Vialli, Baresi e tanti altri miti del passato. Tuttavia, quei sogni sono destinati a rimanere tali: a meno che, sin dalla tenera età, non si dimostrino doti tecniche tali da meritarsi il passaggio al settore giovanile di una squadra professionistica, per iniziare la scalata al vertice.
Pochi ce la fanno a seguire questa strada, e ancora meno sono quelli che, pur crescendo e debuttando in qualche categoria inferiore, vengono successivamente notati dagli osservatori delle big; perché è chiaro, ormai si preferisce puntare solo calciatori affermati, su improbabili stranieri oppure (caso già più raro) su qualcuno svezzato in casa dal proprio settore giovanile. Come se nella nostra serie D non ci fossero giocatori, magari già di 23 o 24 anni, degni di un’occasione, anzi, dell’Occasione, quella che ti cambia la vita, che ti fa realizzare i sogni dell’infanzia. È per questo che la storia di Moreno Torricelli ha dell’incredibile, considerando la fredda (e stupida) razionalità del calcio moderno.
Moreno Torricelli nasce ad Erba, nella Brianza comasca, il 23 gennaio 1970, e cresce nel paese di Inverigo in una famiglia dove la determinazione e lo spirito di sacrificio sono sempre state le parole d’ordine, dal bisnonno che lavorava come fuochista in filanda al papà che, nonostante l’impegnativo lavoro di camionista, troverà sempre il tempo per seguire Moreno nelle sue avventure col pallone. Calcisticamente muove i primi passi nella Folgore di Verano Brianza; in una stagione, nella categoria Allievi Regionali, passa in prestito al Como, che ai tempi frequentava la serie A, ma ritorna poi nella squadra di origine, con la sensazione che il treno sia passato per sempre.
Sacrificio e determinazione, si diceva. Passa dall’Oggiono, in Promozione, alla Caratese, la prima squadra vera. Moreno ci arriva nella stagione ’90-91. Per venti milioni. Un milione e duecentomila di rimborso-spese, nessuna intenzione di mollare il lavoro fuori dal calcio, quello nel mobilificio Spinelli. «Fa un effetto strano, ripensare a quegli anni che sembrano lontani anni-luce. Quando un gol, una vittoria, valevano una birra, una cena in compagnia e poco altro. Eppure anche quelli sono anni indimenticabili». Importanti anche per costruire la favola di Torricelli, e tenerla viva nel cuore della gente.
Il pallone è un passione, il ventiduenne Torricelli non si aspetta certo chissà quali novità: dopo una gioventù come libero, si è riadattato a fare il terzino tutto grinta e corsa, su intuizione di Roberto Dustin Antonelli, già regista nel Milan dello scudetto della Stella e tecnico di quella Caratese che, nella primavera 1992, viene visionata da Claudio Gentile. Lindimenticabile campione del Mondo del 1982 è il direttore sportivo del Lecco, squadra di serie C2, e viene impressionato favorevolmente da questo ragazzo alto e con i capelli a spazzola (sono ancora lontani i tempi del suo look incolto, quasi western). Così, Gentile suggerisce il nome a Giovanni Trapattoni, allenatore della Juventus, che lo convoca prontamente e sorprendentemente per le tradizionali amichevoli di fine stagione, quando altre società di serie C erano ormai pronte ad avanzare unofferta.
Moreno Torricelli si trova, all’improvviso, catapultato nel sogno, indossando la maglia di uno dei club più prestigiosi; certo, il ragazzo, come da tradizione familiare, è interista, ma ovviamente non ci sono problemi sentimentali di fronte ad unopportunità del genere. Il Trap gli parla in dialetto, lo sprona, lo incita e Torricelli sfrutta al volo questa grande possibilità; durante lestate, tre giorni prima della partenza, gli arriva la telefonata che gli cambia la vita, perché viene convocato al raduno estivo della squadra, proprio quando nemmeno lui ci credeva più, visto che il telegramma di convocazione mandato in precedenza non era mai giunto a destinazione a causa di un refuso sullindirizzo.
Inizia così la favola di Geppetto, il babbo e falegname della storia di Pinocchio, nomignolo scelto da Roberto Baggio: pronti via, alla seconda giornata di campionato è già titolare, e da lì in poi non lascerà più la fascia destra della difesa bianconera. La Juve di Trapattoni non fa faville in serie A ma si scatena in Coppa Uefa, vincendo il trofeo a spese del Borussia Dortmund, col comasco inamovibile sulla linea arretrata.
Dopo un’altra stagione ad alti livelli, nella quale i torinesi giungono secondi alle spalle del Milan, inizia l’era Lippi: il tecnico viareggino non ha uno splendido rapporto con Torricelli («Nessuno mi ha mai regalato niente, tantomeno Lippi, con il quale non avevo un grande rapporto umano. Abbiamo semplicemente remato nella stessa direzione: quando hai obiettivi comuni, vai avanti col gruppo, anche se con l’allenatore non ti puoi proprio vedere. Questo era il nostro caso»), del quale però non può fare a meno, contribuendo a farlo crescere sul piano tecnico e a rafforzare sempre più il suo ruolo di indispensabile per quella Juventus che, tra il 1995 e il 1998, vincerà ben tre campionati, una Champions League e una Coppa Intercontinentale.
Sono tre annate indimenticabili per Geppetto che, proprio contro l’Ajax, nella finale di Coppa 1996 disputata all’Olimpico di Roma, gioca probabilmente la sua migliore partita, contenendo le azioni offensive di Kanu e Kluivert, la coppia gol dei Lancieri. «Quella contro l’Ajax all’Olimpico fu la mia miglior partita, in assoluto. Quel giorno mamma Teresa si mise a piangere davanti alla televisione. Prima le era successo solo quando Cabrini sbagliò quel rigore in Spagna. Già, Cabrini era il suo idolo, nel calcio. Fino a quando non è arrivato suo figlio».
In sei anni con la divisa bianconera totalizza 153 presenze realizzando un’unica rete, e superando un gravissimo infortunio nel marzo 1997 che gli causa la lesione del crociato anteriore del ginocchio: «In quei giorni ho imparato a convivere con la solitudine, per uno che fa il mio mestiere restare lontano da questo mondo è allucinante. Ma sapevo che da incidenti del genere si torna, completamente recuperati. Non ho mai perso la sicurezza e l’ottimismo». Nel frattempo, per lui si spalancano anche le porte della nazionale italiana, con la quale contro il Galles nel 1996 e prende parte agli sfortunati Europei di quello stesso anno. Nonostante i problemi fisici, Cesare Maldini lo chiama per i Mondiali 1998, dove però non scende mai in campo, per poi chiudere la sua esperienza azzurra con una serie di amichevoli durante la gestione di Dino Zoff.
Tuttavia, nell’estate 1998 qualcosa si rompe nel suo legame con la società bianconera: senza essere avvertito, la dirigenza lo mette sul mercato e Moreno, pur deluso da un trattamento simile, rifiuta un’importante offerta del Middlesbrough per accasarsi alla Fiorentina, dove ritrova l’amico Trapattoni sulla panchina: «So che mi avrebbe voluto portare anche al Bayern, evidentemente tra noi c’è stima reciproca». Sempre presente e sempre affidabile, in maglia viola disputa quattro stagioni davvero significative, con la squadra più volte ad un passo da uno storico scudetto, prima dell’inglorioso fallimento della gestione Cecchi Gori.
Il comasco conclude la carriera con un’esperienza a Barcellona, nelle file dell’Espanyol, ed infine all’Arezzo, prima di lanciarsi nella carriera di allenatore: gestisce i ragazzi della Fiorentina e passa poi alla Pistoiese e al Figline. La carriera da tecnico è difficile e ricca di ostacoli, e probabilmente Geppetto deve ancora trovare la sua giusta dimensione per questo ruolo, per quanto anche in panchina riesca a sfoggiare quella grinta da falegname che lo ha contraddistino nei lunghi anni in serie A. Il fatto che in queste avventure sia sempre seguito dagli amici Anselmo Robbiati e Gianmatteo Mareggini, conosciuti in maglia viola, conferma come Firenze sia la città del cuore per Torricelli, dove tuttora continua a vivere con la sua famiglia: è infatti sposato con Barbara, dalla quale ha tre figli, che viene tragicamente a mancare nell’ottobre 2010, a causa di un male incurabile. In fondo, in ogni favola c’è sempre un lato triste.