Ogni civiltà ha i suoi tabù, perché di ogni civiltà è il sacro. Ciò che è sacro è intoccabile, inavvicinabile, perché in origine maledetto. Scrive Pompeo Festo (De verborum significatione) che l’homo sacer è «quem populus iudicavit ob maleficium… quivis homo malus atque improbus». Tra le etimologie proposte, l’accadico sakāru rimanda appunto all’atto del bloccare, interdire, ostruire l’accesso. In una comunità di persone il sacro postula l’indiscutibile, i riferimenti invalicabili dell’identità e dei valori comuni di norma rappresentati nella sintesi di un simbolo o di una formula rituale. L’ambivalenza del sacro è prospettica: nel tracciare un confine inviolabile discrimina ciò che deve restare fuori – il tabù – da ciò che sta dentro e attorno a cui ci si deve raccogliere – il totem. Il binomio freudiano svela così i due volti del sacro: dove c’è un totem c’è un tabù, e viceversa. Se la Repubblica Italiana si rispecchia nel totem dell’antifascismo, il fascismo è un tabù. Se una chiesa fissa il suo totem nel dogma, i tabù sono l’eresia e la bestemmia che lo negano.
Non si ha notizia di civiltà senza tabù, perché il sacro soddisfa un fabbisogno spirituale che si riscontra ovunque. Sarebbe perciò sciocco credere che i tempi laici in cui viviamo si siano emancipati dal sacro e quindi dai tabù. L’errore nasce dalla confusione di sacer e sanctus, dove il secondo rimanda in modo specifico alla sacralità religiosa. Sanctus è participio passato di sancīre, attestato anche nel significato di interdire, separare, dedicare (a una divinità), accomunato a sacer da una possibile radice comune sak-. La convergenza e quasi sovrapposizione nell’uso dei due termini sembra illustrare un processo che dall’era classica a quella cristiana ha progressivamente «relegato» il sacro nelle cose ultraterrene, con il vantaggio di trattare più pragmaticamente le cose umane e della terra, di schivare cioè il rischio di sacralizzarle rendendole così inconoscibili perché inaccessibili al λόγος. Un rischio che si sarebbe confermato e si sta più che mai confermando reale.
Ben lontano dall’essere desacralizzata, la nostra è una società desantificata che nel rinunciare al santo ha trascinato il sacro nel fango della storia. Attaccando il divino nella speranza di guadagnarne una liberazione dagli «schemi», dagli «errori» e, appunto, dai tabù del passato, lo ha frantumato in tante schegge semidivine disseminando il sacro in ogni forma e in ogni dove. Da questo schianto è sorto un politeismo i cui feticci non portano più le insegne della divinità ma ne preservano l’inattaccabilità e il dogmatismo. Se l’esperimento novecentesco dell’ateismo di Stato ha colmato il vuoto del sacro religioso con il suo rimpiazzo politico mantenendo e possibilmente aumentando i corollari presidi di repressione e censura degli eterodossi, il fenomeno è letteralmente esploso negli ultimi anni in seno alle democrazie occidentali.
Svincolati dalla sorveglianza di una dottrina riconosciuta e centrale, i nodi del sacro si sono moltiplicati e hanno infestato il discorso pubblico e privato, e quindi anche il pensiero. Ai richiamati totem laici dell’antifascismo e della democrazia si sono aggiunti quelli dell’Unione Europea, Gerusalemme babelica portatrice e promettitrice di pace, dei suoi padri e profeti, de «i mercati» giusti, onnipotenti e severi, dell’internazionalizzazione di popoli e capitali in cui sciogliersi per rinascere fortificati (Gv, 24-25), dell’accoglienza di ogni diversità purché non di pensiero, del laicismo, del riscaldamento globale, della parità di generi e orientamenti sessuali e della loro moltiplicazione, di cose, persone e organizzazioni che «salvano vite», della storia non più solo patria ma di qualunque angolo di mondo purché scritta dai vincitori, del progresso che si autoavvera nella condanna acritica di tutto ciò che è trascorso. L’ultimo totem è insieme il più promettente e potente: «la scienza» e l’innovazione tecnologica in cui si celebrano non già gli strumenti, ma i fini di un’evoluzione di cui portarci all’altezza espungendo ogni incomputabile residuo di umanità.
Ai totem rispondono più numerosi i tabù: non solo «i fascismi» ma anche «i nazionalismi» e le stesse nazioni, le identità tradizionali (il colore locale è ammesso, purché vendibile), la discriminazione anche solo come distinzione di generi e genti, «odio», razzismo, sessismo, antisemitismo, omofobia, transfobia, xenofobia, islamofobia e tutte le nostalgie di un passato ontologicamente peggiore. Dal totem scientifico discendono i tabù dell’antiscientismo, di chi non si lascia cullare da «gli esperti» circolarmente espressi da «la scienza» come sistema gerarchico e finisce negli antri di «maghi» e «stregoni», della superstizione, dell’antivaccinismo, delle cure alternative e «ciarlatanesche», della critica darwiniana, delle scie chimiche, della terra piatta, cubica o dodecaedrica e di qualsiasi altro dubbio non corroborato dai media o dalle peer review. Non serve che il soggetto si affili direttamente a un tabù: basta che non si dissoci dalla sua lettera e dai suoi latori con la dovuta veemenza. Allora sarà detto revisionista, negazionista, complottista o reazionario, dato in pasto al gregge schiumante e accusato della stessa bestialità con cui lo si attacca. Non potendolo più chiamare eretico, dell’eretico subirà la sorte sociale, fin quando il sognato tramonto delle garanzie costituzionali non renderà lecita anche quella penale.
A questi tabù generali ciascuno aggiunge i propri e quelli della propria fazione, in un proliferare senza freni di caveat dialettici dove l’elaborazione verbale e concettuale diventa un campo minato, un percorso a ostacoli irto di cose da non dire, o da dire avendo reso devoto omaggio al loro contrario («premesso che personalmente», «ben lungi dal difendere» e via escusando). Si instaura così la «dittatura del politicamente corretto» denunciata e descritta da molti autori, che nell’incarcerare il discorso toglie spazio al pensiero e lo impoverisce, lo confina in un cono di luce sempre più angusto dove può solo balbettare e ridursi alla litania degli slogan e degli hashtag, fino all’afasia. Ciò che resta è un pensiero minimo e lobotomico asservito alla sua negazione, un intelletto tutto teso allo spegnimento si sé: proprio e altrui, presente, futuro e persino passato, con la pretesa di distruggere o riscrivere le testimonianze sgradite alle nuove dottrine. L’epoca presente si candida così a diventare non solo la più bigotta e fanatica, ma anche quella intellettualmente più povera, la più sterile e puerile degli ultimi secoli.
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Nel rompere gli argini del sacro, l’eclissi del santo ne ha liberalizzato anche i sacerdoti, conoscitori e guardiani del tabù, il cui soglio vacante si è lasciato occupare da chi già occupava il trono secolare dell’economia e delle armi, dai vincitori del mondo e da chi ne accetta la legge. Ecco un’ascoltata intellettuale enunciare, con apposito test, un lungo elenco di propositiones in odore di «fascismo» per misurare l’omodossia dei lettori. Eccone un altro che nel «populismo» vede non già l’etichetta storica di un momento storico ma la colpa eterna del «fascismo eterno» formulata da un pater ecclesiae. Ecco l’analisi di un «maschilismo» che sedurrebbe le anime per «vie insidiose» e invisibili ai non iniziati. Ed ecco il giornalista di un grande giornale che, al contrario, distribuisce dispense dal tabù atavico dell’infanzia sofferente spiegando «quando è necessario mostrare la foto di un bimbo che muore». Quando? Solo in casi estremi: quelli cioè decisi da lui e dai suoi editori per attaccare i governi a sé nemici, perché lì «non può esistere il sospetto che sia un modo di speculare sui minori». Chi controlla i tabù controlla il pensiero, ne traccia i confini e l’orizzonte, alza gli argini dentro cui deve fluire per imporgli l’unico corso possibile: il proprio. Scrive Roberto Pecchioli:
Il XXI secolo, tecnologico e permissivo, ha bisogno di un sistema di potere allucinogeno: le masse devono essere convinte di godere di ampie libertà, nonché di avere grandi possibilità individuali. Un esercito di finti pezzi unici, sospinti però verso comportamenti, gusti, reazioni assolutamente comuni e previste. È il principio del soft power, che agisce per linee interne, a livello subliminale, persuasivo, per coazione a ripetere, mostrando e imponendo modelli, ottenendo senza violenza fisica comportamenti o attitudini di proprio gradimento.
E ancora:
Ciò che chiamiamo politicamente corretto è una accattivante confezione di preconcetti basata su un unico postulato: l’uguaglianza quasi paranoica, ossessiva, superstiziosa, che diventa uniformità, gabbia inviolabile. Timoroso di se stesso, l’uomo mette a confronto la sua percezione di fatti, il proprio principio di realtà, inevitabilmente diverso dalla visione ufficiale, e censura se stesso, si considera cattivo, malvagio in quanto giudica altrimenti, e, nella maggioranza dei casi, si conforma, sino a introiettare come giusto e vero quello che il suo proprio convincimento rifiuterebbe.
I frutti del condizionamento a contrariis sono strabilianti, non ottenibili con tecniche di propaganda «positiva». Emmanuel Macron, già banchiere presso i Rotschild e misteriosamente catapultato al Ministero dell’economia nel 2014, dove fece approvare con procedura d’urgenza la legge ferocemente padronale che porta il suo nome, lo stesso Macron contro cui oggi le classi popolari francesi manifestano mettendo a ferro e fuoco il Paese, si aggiudicò le elezioni presidenziali del 2017 contro Marine Le Pen perché quest’ultima era tabù, figlia di un neofascista, dimostrando così che lo stigma sacrale si trasmette anche per via di sangue, non solo ideologica. Per lo stesso motivo qualcuno è riuscito a scrivere che non si possono criticare le idee e le iniziative politiche di George Soros senza violare il tabù dell’«antisemitismo», vantando il finanziere ungherese un’ascendenza ebraica. Associando tabù lontani si creano e si governano i «moderati», che non essendo mai tali negli atti e nelle idee si definiscono così perché abbracciano gli atti e le idee del manovratore di turno collocandosi con prevedibile diligenza tra gli «estremismi», cioè i tabù, che ha fabbricato per loro. L’intransigenza del metodo generale produce, per imitazione, parrocchie e sottogruppi ancora più intransigenti, in reciproca guerra per aggiudicarsi la palma dei «puri». Nasce così il fenomeno del «mai con», infallibile nel soffocare in culla le possibili alleanze tra dissenzienti, tutti impegnati a restringere ulteriormente il già ristretto recinto sacrale per bearsi della propria incontaminazione.
Andrebbe chiaramente detto – e qui lo diciamo – che non è possibile rendere omaggio al complicato olimpo dei totem e dei tabù contemporanei per guadagnarsi il diritto di esprimersi, e insieme esprimere un pensiero libero e originale, figuriamoci critico. Perché le minuziose mappe del sacro servono precisamente a sopprimere la libertà di pronunciare ciò che dispiace a chi ha la forza di imporle. Non si può vincere rispettando le regole degli avversari. Quando parlo del libro che ho recentemente pubblicato con Pier Paolo Dal Monte sui rischi di avere reso coercitive e indiscutibili diverse vaccinazioni per l’infanzia, mi guardo bene dal prendere le distanze dai «no vax». Non perché io lo sia o non lo sia, ma perché quel tabù serve proprio ed esclusivamente – lo ripeto: esclusivamente, mancandogli ogni fondamento analitico – a squalificare ogni posizione critica sul tema, e quindi anche ciò che ho scritto nel libro. Sicché mi sconfesserei già in partenza. Né sarebbe intelligente esercitarsi in distinzioni diffinitorie di scuola questista su quale sia il «vero» oscurantismo, il «vero» razzismo, il «vero» negazionismo o, viceversa, la «vera» Europa, il «vero» internazionalismo, il «vero» progresso e via dicendo, perché si è già visto che il sacro è postulato in ontologia, esiste proprio per mettere i cardini fondanti dell’identità al riparo dalla dialettica. Il suo essere indeclinabile è cioè sostanziale, non accidentale. L’unica strategia costruttiva è quindi quella di disconoscere i tabù vulgati, di allontanarsene e di rimuoverli dalla propria agenda per costruire un pensiero altro e ancorato ai propri, personali tabù: meglio se pochi e meglio ancora, per quanto possibile, se non inquinati dal mondo.
Fonte: http://ilpedante.org/post/l-invasione-degli-ultratabu