Articolo di Adriana La Trecchia Scola

 

La complessità del concetto del tempo è da sempre oggetto di studi e riflessioni filosofiche e scientifiche. Empiricamente il tempo è la percezione e rappresentazione della modalità di successione degli eventi e del rapporto fra essi (per cui avvengono prima, dopo o durante altri eventi). La concezione umana “del trascorrere del tempo”, che caratterizza i fenomeni e i cambiamenti materiali e spaziali della nostra esperienza, non trova una corrispondenza univoca nella fisica. Non è possibile sequenziare in modo univoco e assoluto, ma solo localmente l’apparente successione degli eventi secondo l’osservazione umana. Tutto ciò che si muove nello spazio e/o si trasforma è descritto nella mente umana a livello temporale. Nell’antichità Chronos (in greco antico Xpóvos, Tempo) era la divinità avente il compito di temporalizzare gli eventi, da non confondere con Crono (nella mitologia romana Saturno) che era uno dei dodici Titani, il divoratore dei suoi figli. In realtà Crono divenne il simbolo non solo del divoratore dei figli, ma (come il tempo cronologico) dell’inesorabile trascorrere del tempo divoratore di tutti gli eventi. Anche Cicerone, in De natura deorum, proponeva l’identificazione di Crono/Kronos (e quindi di Saturno): “Krónos, altro non è una leggera variante di Chronos, tempo. Quanto poi al nome Saturno deriva dal fatto che questo dio è saturo di anni. La finzione che divorasse i suoi figli sta a simboleggiare che il Tempo distrugge i giorni che passano e fa degli anni trascorsi il suo nutrimento senza mai saziarsi. Analogamente si immaginò che il figlio Giove lo incatenasse per evitare che si abbandonasse a movimenti disordinati e per conservarlo avvinto ai moti degli astri”. Per i nostri sensi (secondo la filosofia occidentale) il tempo trae origine dalla trasformazione. La percezione umana del “tempo” presuppone che nella realtà di cui siamo parte sia trascorso un “intervallo di tempo” in cui si sarebbe materialmente modificata. Si parla di “intervallo” per significare che il tempo è apparentemente una “durata” (unico sinonimo di Tempo) e come tale ha un inizio e una fine come assioma senza alcuna dimostrazione. Infatti la percezione del tempo dipende dalla mente, con le sue ricostruzioni del passato, presente e futuro; ma scientificamente tutto il tempo esiste simultaneamente e continuamente senza distinzione tra passato e futuro, mentre il presente non esisterebbe perchè ogni atto necessita di una “latenza” del lasso della verità-luce. Il tempo è misurabile solo localmente per eventi che intercorrono in una stessa cornice temporale, ma fisicamente ciò è impossibile, la simultaneità è solo apparente e gli eventi accadono in ordine diverso per osservatori differenti. Nel corso della storia dell’uomo sono stati creati e migliorati gli strumenti per misurare il tempo (calendari e orologi),  proprio per cercare di rispondere in modo convincente alla domanda “Che cos’è il tempo?”. Tutti gli strumenti di misura del tempo si basano sul confronto e conseguente conteggio tra un movimento nello spazio e un altro movimento “campione”. Si potrebbe addirittura assumere quale definizione del tempo, in fisica, l’identità con il movimento stesso. In questo senso, l’intero universo in evoluzione si può considerare il vero fondamento della definizione di Tempo. Ma “in evoluzione”, ossia in movimento vario, accelerato: senza movimento, senza variazione anche il tempo scompare. Il tema del tempo è sfuggevole come gli istanti di cui è fatta l’esistenza. Ogni momento esiste solo nella misura in cui sta già scomparendo, perchè vivere è un pò morire. Il nucleo dell’esistenza è il divenire, che a sua volta implica il cambiamento. La natura del tempo si è sempre rivelata mutevole e per questo ha eluso filosofi e scienzati. Le costruzioni relative al tempo sono il tentativo di uccidere il tempo (come nella mitologia viene ucciso il dio del tempo, Chrónos) in quanto il tempo, o meglio il trascorrere del tempo, è vita ma anche morte. Sia nell’antichità sia oggi elaborando entità assolute, eterne e immutabili si supera e sconfigge la morte. Purtroppo il tentativo matematico di eliminare il tempo si è rivelato illusorio poichè consiste in una semplificazione utilizzabile per le faccende quotidiane e niente più. La relatività di Einstein e la meccanica quantistica hanno distrutto non tanto il tempo, ma l’illusione attraverso la quale si cercava di controllarlo e dominarlo. Fuori dell’ambito familiare ma angusto del nostro quotidiano, esiste un mondo molto più vario e sorprendente dove il tempo è più inossidabile di quello “assoluto”. In verità le astrazioni teoriche sul tempo vogliono semplificare una complessità che non ha regole. Sicuramente sono troppo umane perchè cercano di ridurre l’universo all’uomo. Forse non esiste una definizione del tempo, tuttavia lo “sentiamo” come una dimensione misteriosa che ci definisce. Pertanto bisogna considerare non tanto la nozione di tempo, quanto la pratica del tempo. In Avere tempo.Saggio di cronosofia il filosofo francese Pascal Chabot dice che con il tempo bisogna fare i conti, perchè “Vivere non è altro che avere tempo”. Il sottotitolo del libro è “Cronosofia” in quanto “È una forma di saggezza basata sulla figura dell’Occasione, il momento che si presenta e non tornerà più. È il tempo filosofico per eccellenza, una porta di fuga dalle varie temporalità che scandiscono la storia umana (il Fato, il Progresso, l’Ipertempo, la Scadenza). Per riconoscere l’Occasione serve la consapevolezza del carattere irreversibile della spirale del tempo. Per me è l’immagine di kairos che per i greci era un piccolo dio raffigurato con la testa rasata affinchè nessuno potesse afferrarlo per i capelli. È uno schema in cui l’espressione “avere tempo” ritrova la sua umanità, perchè il tempo va preso, quanto lasciato in base alle priorità dei nostri desideri”. Secondo Chabot nel contesto globalizzato, in cui agiscono ultra-forze tecno-scientifiche e finanziare, il tempo “scivola via dall’uomo”. È l’Ipertempo dove la temporalità accelera ma diventa anche Scadenza, “poichè la questione che si pone è sapere quanto tempo rimane per agire prima che si verifichi una catastrofe ecologica che si definisce ineluttabile”. In base alla visione del Fato il comportamento umano consisterebbe nel sopportare e aspettare che passi, ma adesso la figura del tempo è quella dell’Ipertempo. Secondo Chabot il Progresso è “l’unica categoria che permette un rapporto non fatalista con il tempo” perchè “gli aspetti materiali e gli aspetti della dignità umana si sostengono a vicenda”. Solo il progresso “dà un posto di rilievo alle questioni di emancipazione civile e politica, che tratta senza facili antitecnologismi, perchè ha capito che è da una pluralità equilibrata che nascono i miglioramenti”. Bisogna agire per il miglioramento, perchè esso si confronta con la “resistenza del reale”, con i suoi tempi. Una ricerca onirica e dalla forma circolare avviene nel film Memoria (2021) del regista thailandese Apichatpong Weerasethakul dove nulla succede, eppure tutto si compie. L’autore, con una carriera più che ventennale e una fama festivaliera consolidata, ha saputo portare il suo universo visivo, auditivo e formale in un paese straniero (la Colombia) e qui raccontare un’esperienza di alienazione e scoperta che mette in discussione le certezze razionali di una donna (la protagonista Tilda Swinton) e con lei di tutti noi. Soprattutto è messa in discussione l’illusione dell’uomo di dominare il mondo con la razionalità (con la mente, lo sguardo, l’orecchio), perchè il percorso di ricerca trova il suo limite proprio difronte alla grandiosità senza forma del cosmo. Per Apichatpong Weerasethakul il cinema non è movimento, racconto o rappresentazione, ma attesa, presenza di un evento, epifania. La memoria abbraccia il cosmo, che essendo una totalità senza forma non può che manifestarsi in maniera così ampia da diventare invisibile, inconoscibile in termini razionali. La protagonista non è spettatrice di nulla, ma per una volta “sente” tutto: non come fino a quel momento ha sentito il rumore, ma come immersa in un’esistenza collettiva di cui fa parte. Siamo stranieri in una terra che non ci appartiene e possiamo solo accettare la totalità del cosmo.

 

“Volevo far parte di una scena di musicisti d’alta classe. Era una mezza ispirazione perchè non avevo molti amici e speravo che avrei incontrato gente, che mi sarei innamorata e che avrei fondato una comunità intorno a me, così come si usava fare negli anni sessanta”. L’auspicio di Lana Del Rey, pseudonimo di Elizabeth Grant, si è trasformato in una carriera prolifica e inimitabile. Il 24 marzo è uscito il nono album in studio, Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd, che rappresenta l’ennesima perla del viaggio poetico dell’artista. In una fase iniziale (indie), prima che entrasse a far parte del sistema professionale delle case discografiche, la sua fama cresce attraverso video semi-amatoriali rilasciati su YouTube. È il caso del bellissimo e suggestivo “Video Games”, che pur essendo così diverso dal comune pop radiofonico, raccoglie ampi consensi. Video Games rappresenta la nascita di una vera diva del pop contemporaneo, con una sua precisa estetica lontana dalle tendenze usa e getta. Lana Del Rey è l’eroina di un’ America sepolta dalla memoria, quella dei gloriosi e irripetibili anni 50, che non ha nulla da invidiare agli States odierni, perchè ancora capace di credere nel sogno di un mondo migliore. La sua identità musicale è stata scelta in quanto “le ricordava il fascino del mare” e “suonava bene venendo fuori dalla punta della lingua”, ma potrebbe essere una combinazione tra il nome della star hollywoodiana Lana Turner e quello dell’automobile Ford Del Rey. Secondo il caporedattore della rivista In Touch Weekly la sua dedizione e il suo talento sono innegabili, anzi:”Credo che lei si preoccupi per l’arte che sta creando. Non credo affatto che sia falsa”. Di sicuro Lana Del Rey è una diva fuori dagli schemi del mainstream, che ha sviluppato la sua poetica in modo coerente, in modo da essere autentica e artefatta allo stesso istante. Nonostante condivida con Taylor Swift, la produzione di Jack Antonoff, la Del Rey non sembra voler abbracciare comuni sonorità pop, ma resta fedele ad un mood malinconico/ romantico. Ha definito il suo stile musicale “Hollywood sadcore”, un genere di alternative rock caratterizzato da testi cupi, melodie malinconiche e tempi più lenti. I critici hanno elogiato la raffinatezza della sua interpretazione vocale, in quanto la sua innata capacità di cantare è in grado di salire in alto e ridiscendere senza che l’ascoltatore abbia il tempo di intuire le coordinate spazio-temporali in cui si trova. Insomma più che Born to Die, Lana Del Rey è una dea nata per cantare.
megliodiniente

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