Libri-Poesia

Bruno LORENZINI – detto “Scarpa grossa”. “Nevica. Si sveglia il silenzio – Immagini sospese”

Di Furio Detti

Nitidi. Sono forti i versi di Bruno Lorenzini, detto “Scarpa grossa”, postino e poeta della montagna pistoiese, nella fattispecie il paese di Granaglione. Sono versi come i “versi” emessi dagli animali nel bosco, precisi e istintivi, funzionali al loro compito e scopo. Non sono mai insensati, hanno in essi tutta la vita e la dura generosità dei boschi d’Appennino, in cui sono nati, da cui sono nati e da cui trae la sua ispirazione il poeta di Granaglione.

C’è un’ostinata e schietta musicalità, anche quella antica e memorabile delle filastrocche, certamente vi sono degli accostamenti tipici e più volte uditi nella poesia popolare; ma vi troviamo anche un’incarnazione più letteraria e la caratteristica distintiva di chi “ha orecchio” per la prosodia, il mondo e appartiene a queste valli, compresse e ripide; ben connesse con il flusso dei traffici di valle ma ancora occasionalmente isolate. Luoghi che offrono esperienze anche un po’ “contrabbandiere”, quali una specie di frontiera montana meno maestosa, ma anche meno domesticata di quella alpina.

Nei versi di Bruno Lorenzini parla la prima nobiltà della foresta. Dalle sue esperienze egli trae immagini vivide, potenti, che rimangono impresse. Occasioni di trasformazione e talvolta trasfigurazione del reale, come se Lorenzini estraesse pietre dai torrenti e con una gentile ironia svelasse ogni piccolo miracolo nascosto in questi avvenimenti. Vi troviamo tutta la verità del ciclo naturale, che sorprende; ma anche la testimonianza delle ingiustizie, dei rovesci, delle difficoltà e degli incidenti che capitano in quota e lungo i sentieri che “Scarpa grossa” percorre e racconta. Come tempeste, fortunali, o il marcire di un albero, il decadere e crollo di una struttura umana abbandonata, la desolazione di alcuni luoghi, ma anche il fiorire prepotente e intenso, inatteso della vita in altri.

Fra i componimenti migliori, uno che mi ha toccato in particolare, il quale è una minicronaca di decadenza che ha qualcosa di misterico e religioso, pienamente rispondente alla natura di questi luoghi, per cui partiamo da qui per presentarvi i versi di Bruno:

Le Tre Croci di Monte Cavallo

Demoniaca la tempesta che nessuno
ha sentito né visto,
illibate le croci dei ladroni,
divelta, quella del Cristo.

Quando la poesia riflette la natura, la conformazione, lo spirito del luogo è poesia vera, ben riuscita. Poesia incardinata nella realtà. Questa brevissima composizione racconta un evento prosaico, il marcire del legno alla base della croce e la caduta a seguito del vento, trasformandola in una scena sacra. Un’occasione ben centrata.

Così ci piacciono i momenti in cui un semplice, rapido avvenimento – lo schianto di un albero, il verso di un animale, il volo imprevisto di un uccello e il maltempo – diventa un momento in cui il poeta trasforma la realtà rendendola presente e fruibile anche nel suo significato più autentico per il lettore, che non è potuto esserci. Tra le altre poesie che riflettono questa attitudine, abbiamo “Bramito” e “Un ululato”, ma anche “Un borgo di nebbia”, “Leggera silenziosa” e la poesia “Nebbia” (p. 47).

Partirei ancora da “Un ululato”, pag. 73, poesia quasi ermetica, di un solo verso, perché presenta un rovesciamento semantico assai interessante:

Un Ululato

Fuggono le tenebre nell’oscurità.

Qui il lupo non è la tradizionale minaccia, tipica della favolistica e dell’immaginario, ma anzi è nume totemico, tutelare, protettivo, che ricaccia nel buio i terrori del mondo selvatico. Questa è la freschezza e la qualità della poesia di Lorenzini, il rovesciamento non è nuovo, ma è nuova la sua applicazione all’immagine ferina del richiamo risuonante nel buio. Come ci piace davvero molto il distico “Bramito”:

Il crepuscolo è infranto
da un tuono senza lampo.

Una poesia musicalmente pascoliana. Così come “Un borgo di nebbia”:

Cala la fiumana, tutto glassa:
le luci dei vani, le gialle cotogne
il latrare dei cani,
dei camini gli incensi,
le aie, le cantonate,
i montani silenzi.

Una musicalità molto intima. In “Leggera silenziosa” abbiamo la comparsa di un cervo:

Leggera silenziosa
come il volteggiare di una piuma
la maestosità di un cervo
sbriciola la bruma.

Densa l’immagine retorica che attribuisce alla visione dell’animale il potere fisico di frantumare persino la stessa atmosfera, nebbiosa.

Altri punti forti della raccolta sono le più umane e personali vicende del poeta. Ricche di momenti passionali e appassionati (“Autunno in faggeta”, “L’artista bastardo”), due poesie molto belle nella loro presenza erotica:

[…] Tu mi attrai come la cosa
che sta sotto le sottane[…]

Vento di rincorsa, mulina di lato,
all’improvviso scende a precipizio,
vento, di Eolo figlio illegittimo,
lascia ove prima dimorava la banale perfezione
il vitto astratto della confusione:
in questa sbornia di colori ti vorrei senza veli,
le tornite cosce ondeggianti come steli,
vorrei che il vento lodi cantasse
ai tuoi turgidi seni e a queste rosse bacche.

Ci sono anche poesie di più minuta esperienza personale:

Non temo la notte

Non temo la notte
che lenta nel bosco si posa.
Dimora nel mio giaciglio di foglie
la conoscenza silenziosa.

Oppure gli splendidi due componimenti “La Tempesta” e “Attesa”:

La Tempesta

Si allontana il bellico vento,
alberi e fronde distesi
nell’ultimo lamento.
La misericordia della resina
li abbraccia e tiene giunti.
Profumano gli abeti anche da defunti.

(ricordando la Foresta di Paneveggio)

Accendo il fuoco,
si spegne l’inquietudine
di lì a poco.

O gli ultimi tre versi di “Attesa”:

[…]
Nei chiaroscuri della faggeta
si spoglia la nebbia
e finalmente siamo soli.

In questo dialogo continuo del poeta con la natura c’è veramente di tutto. Non tutte le poesie sono indovinate o nuove, ma quasi tutte descrivono situazioni che esplodono in immagini finali notevoli, che superano anche i punti meno felici degli stessi componimenti da cui prendono avvio. Fra le uscite meno felici i componimenti più narrativi, come “Il Vino”, “Piazza della Sala”, “Lo Spaventapasseri” (forse il componimento meno riuscito dell’opera, troppo convenzionale).

Abbiamo anche richiami carducciani, come in “Rondini” (p. 87) o assolutamente “Crinale d’Autunno”:

Rondini

Sparisce il campanile
dentro l’orda di un ubriacante garrire
Partono le rondini al rintocco delle campane.
Sfumano all’orizzonte,
sono già lontane.

Crinale d’Autunno

Nel vento del mattino beccheggia il sole
lemme lemme.
Lontani stormi di colombacci
vanno alle maremme.

Vi sono anche spunti simili alla poesia di Pasolini (p.67):

Il pagliaio

Mani sapienti posano il decimato fieno
attorno a un palo statuario.
Stanno ora le fienagioni inermi
come caduti in un sacrario.

Volteggiano sinistri i gracchianti corvi
hanno il gigno di una megera
portano la stessa angoscia che dà
accendere un fuoco nella bufera.

E concluderei volentieri con il dannunziano “Calura”:

Calura

Non distinguo più il falso dal reale
mi tarantola questo incessante
frinire di cicale
vedo sinistri neri uccelli che vanno
alla spigolatura
c’è all’orizzonte una danzatrice senza veli
è la calura.

Insomma una lettura meritevole di attenzione. Un ritorno a quel tempo umile della parola che matura come sotto a una corteccia scabra per gemmare in primavera

megliodiniente

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