Juventus

Buon compleanno Presidente.

Giampiero BONIPERTI

 

http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/07/giampiero-boniperti.html

«Ho avuto tante offerte. Inter, Milan, Roma, il Grande Torino. Era stato Valentino Mazzola a fare il mio nome a Ferruccio Novo. Il presidente mi ricevette nel suo ufficio: “Commendatore” – gli dissi – sono della Juve, non posso”».
Nasce a Barengo (Novara) il 4 luglio 1928. La Juventus lo preleva dal Momo, squadra dilettantistica del novarese, nell’immediato secondo dopoguerra e con i mai traditi colori bianconeri, nell’arco di quindici stagioni, disputa 460 partite (444 di campionato, tredici di Coppa Italia e tre nell’ambito della Coppa dei Campioni) realizzando 179 goal (178 in campionato e uno in Coppa Italia).
Racconta del suo trasferimento in bianconero: «Le trattative furono brevi; io avevo firmato il cartellino per il Momo ma, sentimentalmente, il mio cuore era per la squadra del mio paese, il Barengo, e desideravo che, nel passaggio alla Juventus, anche quella società avesse qualche guadagno. Andò a finire così: prezzo di acquisto 60.000 lire; 30.000 furono per il Momo e 30.000 per il Barengo, in scarpe, maglie e reti, di cui avevano bisogno. Io, mi accontentai dell’onore. Furono gli amici a leggermi la Juve del quinquennio come se fosse un romanzo d’avventure. Il fenomeno di casa, però, era Gino, mio fratello. Solo che fumava come un turco. Sarebbe diventato un fuoriclasse. Ha fatto il radiologo. Me l’ha portato via un tumore. Feci il provino in Piazza d’Armi, dove si allenavano i ragazzi. Borel venne a vedermi. Poi, entrò in campo. Mi lanciava la palla. Di destro: pim, di sinistro: pim. Chiamò il dottor Egidio Perone, medico di Barengo e tifosissimo della Juventus, e gli disse: “Portamelo ancora domenica, così lo faccio giocare nelle riserve prima della partita con il Livorno”. La domenica, era il 22 maggio 1946, tornammo a Torino. Sulla Topolino del dottor Perrone. L’appuntamento era allo Sporting, il tennis club, dove i giocatori mangiavano, prima di andare, a piedi, al Comunale. Vidi per la prima volta Sentimenti IV e Rava, Parola e Piola, Varglien II e Locatelli, Coscia e Depetrini, insomma conobbi la mia Juve. Poi andammo al campo: l’avversario era il Fossano e mi marcava un giocatore vero, anche se un po’ in là con gli anni. Era stato lo stopper del Torino. Vincemmo 7-0 ed io segnai sette goal. Carlin, storico giornalista di “Tuttosport”, scrisse: “È nato un settimino”. La Juve, con Volpato che era il responsabile del settore giovanile, mi fece firmare il cartellino nel sottopassaggio che portava agli spogliatoi».
Soprannominato dai suoi avversari Marisa, a causa dei suoi boccoli biondi, Boniperti è un centravanti mobilissimo, astuto, dalla tecnica sopraffina e dall’innato senso del goal, Boniperti (che nella seconda parte della carriera, ridimensionato il raggio d’azione, fornirà sempre maggior apporto al centrocampo), nel 1947-48, a meno di vent’anni, con ventisette reti, si aggiudica la classifica dei marcatori con due goal di vantaggio su Valentino Mazzola, capitano del mitico Grande Torino. Da calciatore lega il suo nome agli scudetti 1950 (non nascondendo mai la preferenza per questa squadra, da lui ritenuta la più bella) 1952, 1958, 1960 e 1961 e alla Coppa Italia nel 1959 e nel 1960.
È diventata leggenda la storia dei premi che Gianni Agnelli gli dava per ogni rete segnata; gli veniva regalata una mucca, che lui andava a prendere direttamente nei poderi della famiglia Agnelli. Il fattore, a un certo punto, si lamentò, dicendo che Giampiero gli portava via le mucche più belle e, per giunta, gravide.
Al termine del campionato 1960-61, disputa la sua ultima partita: è il 10 giugno 1961, ed è un’occasione piuttosto triste per la storia del calcio: gli avversari sono, infatti, i ragazzini dell’Inter, fra i quali Sandro Mazzola, figlio dello scomparso rivale granata Valentino, polemicamente mandati in campo dalla società neroazzurra ed è forse proprio questo il motivo che induce Boniperti a chiudere con il calcio: «Sono per i tagli netti. Mi tolsi le scarpe e le diedi al magazziniere. Mai più messe. Odio le pantomime fra vecchie glorie».
Charles disse: «La perdita di Boniperti, dal punto di vista tecnico, aveva nuociuto in modo basilare alla squadra, essendo venuto a mancare il cervello, il pilastro del centrocampo, l’uomo che dirige e coordina il lavoro dei compagni, l’uomo indispensabile per una squadra che voglia giocare un calcio moderno a livello nazionale e internazionale».
Boniperti, con la maglia azzurra, partecipa alle spedizioni mondiali del 1950 in Brasile e del 1954 in Svizzera, colleziona trentotto presenze e otto goal. Un gettone e due reti con la rappresentativa B. Il 21 ottobre 1953, l’olandese Lotsy lo seleziona per la gara in programma a Wembley fra l’Inghilterra e il Resto d’Europa, organizzata per festeggiare il novantesimo anniversario della Football Association. Boniperti, l’unico italiano in campo, al fianco dei vari Nordahl, Vukas, Kubala e Zebec, è autore di una prestazione da favola che corona con due splendidi goal: finisce 4-4, ma il venticinquenne biondo di Barengo è unanimemente riconosciuto come il migliore in campo.
Uno dei tanti aneddoti: «Ludovico Tubaro. Veniva dal Toro, giocava nel Legnano. Un tronco di stopper. Una domenica, mi entra a catapulta sulla caviglia e rischia di spezzarmela. Esco, mi medicano, rientro. Lo aspetto. Palla sopra la testa e gran botta, gran goal. Lo cerco e gli faccio il gesto dell’ombrello: “Tubaro, tiè”. Mi ha inseguito fin sotto la doccia. Un giorno, che ero ancora europarlamentare, squilla il telefonino. Era lui. Quasi mezzo secolo dopo. Quel pomeriggio, l’avrei ammazzato. Quel giorno, l’avrei abbracciato».
Dopo un decennio trascorso nei quadri dirigenziali, Boniperti il 13 luglio 1971, assume la presidenza della Juventus e la squadra, dopo anni non troppo brillanti torna a volare. Sotto la sua regia, infatti, la squadra bianconera tiranneggia l’Italia, l’Europa e il Mondo: arrivano scudetti e soprattutto quelle Coppe Europee che in casa Juventus avevano sempre fatto soffrire.
Quando la Juventus di Parola perse lo scudetto con il Torino, nel campionato 1975-76 Boniperti si presentò a Villar Perosa, per discutere dei contratti con i giocatori. Nella propria borsa, oltre ai contratti, aveva anche un ritaglio di giornale, con la formazione scesa in campo a Perugia giornata di campionato. 16 maggio 1976, la Juventus perde per 1-0 e il Torino, pareggiando in casa contro il Cesena, può festeggiare il tricolore. Ai giocatori che, a mano a mano, entravano nella sua stanza, Boniperti diceva: «Tu c’eri a Perugia…». Nessuno ebbe certo il coraggio di rilanciare sul reingaggio. Lui faceva l’interesse della società, ovviamente, ma stimolava i giocatori nell’orgoglio e nel portafoglio. Rimane in carica fino all’avvento della Triade composta da Moggi, Girando e Bettega; più di trent’anni dietro una scrivania e tante, tantissime vittorie.

DAL SUO LIBRO “UNA VITA A TESTA ALTA”
Sono arrivati insieme Omar Sivori e John Charles. Anno di grazia 1957: con loro è cambiata la vita, della Juventus e mia. Tre scudetti in quattro anni non hanno bisogno di spiegazioni. Cattivi rapporti con Omar? Bisogna capire una cosa. Sivori era argentino. Non era né brasiliano, né John Charles. Il brasiliano, se può, ti dribbla e passa la palla, in silenzio. L’argentino ti dribbla dandoti un pugno in faccia e poi ti manda a fare in culo con un “Hijo de puta”.
Charles è un fuori quota. John era un gigante di 1,90, campione dei pesi massimi, che saltava con le braccia lungo i fianchi per non far male. Uno dei più grandi signori del calcio. Gran colpitore di testa, come John Hansen. Ma Hansen, dopo un po’ che era in Italia, aveva capito tutto e i gomiti li allargava. Charles no. Io mi arrabbiavo. Nell’intervallo delle partite spesso non cambiavo i calzoncini e non bevevo il the per stare a parlare con lui: «John alza ‘sti gomiti. Non vedi che ti picchiano? Se tu allarghi i gomiti noi segniamo sempre». Ma lui non l’aveva nel sangue, faceva dei gran sì con la testa e poi continuava a giocare come al solito.
Sivori era tutto il contrario. Strafottente. Ti tirava i capelli, ti metteva le dita negli occhi. Ci ha creato un bel po’ di problemi con gli avversari. Quando siamo andati a Vienna, nel ritorno del primo turno di Coppa Campioni, ci hanno ammazzato: sette goal e un sacco di botte. Ce l’avevano giurata, dopo l’andata a Torino in cui Sivori aveva segnato una tripletta provocandoli in continuazione. Ma che grande giocatore, Omar. Ti divertiva, in campo e fuori, era una fortuna averlo come compagno. Era stato portato da Levi, un vecchio dirigente della Juventus che viveva in Argentina. Sivori non si teneva dentro niente, non te le mandava a dire. Ed era molto coccolato: dai giornalisti e dalla famiglia Agnelli. Dicevano che non andassimo d’accordo ed è vero solo in parte. Eravamo molto diversi, questo sì, mi disturbavano certi suoi atteggiamenti provocatori e glielo dicevo. Non ci siamo taciuti nulla, ma insulti mai, litigate mai. Anzi, ci siamo divertiti insieme. Ancora oggi quando Omar viene in Italia vederci è di rigore. Sempre.
Boniperti, Sivori e Charles: che tempi. John era la nostra guardia del corpo. Ricordo quando Gigi Peronace mi ha portato Charles a casa. Vedo ‘sto uomo per la prima volta, un monumento. L’ho fatto alzare in piedi: «Gigi, con lui vinciamo tutto». Ed è stato così. John era un giocatore straordinario e andava d’accordo con tutti, era impossibile non volergli bene. Lui e Omar sono arrivati nel 1957. Con loro due davanti, dopo otto anni da centravanti, io sono arretrato stabilmente e felicemente a mezz’ala. Mezz’ala di regia, un ruolo che mi sono inventato. Sivori faceva la mezz’ala di punta, Charles era un magnifico centravanti ed io le mie battaglie in area di rigore le avevo già fatte. Allora non c’era la TV. Tutti guardavano la palla e in area, lontano dal pallone, volavano colpi spesso proibiti. Quante botte ho preso là in mezzo.
Soprattutto agli inizi della carriera era molto faticoso giocare l’intera partita. La Juventus di fine anni quaranta era una squadra stagionata: Depetrini, Locatelli, Magni, Sentimenti III, Rava, il più giovane ero io. Loro, i veterani, quando avevano la palla la lanciavano subito dentro a me, io certe volte facevo tre o quattro scatti uno dietro l’altro ed ero perso per il resto della gara; basta, non toccavo più palla, perché se non rompi il fiato sei imballato per tutta la partita. Ma vaglielo a spiegare. Se non correvo mi sgridavano: «Dì cit, scatta», urlavano e dovevi filare, in bocca a certi difensori che erano più che mastini. Castigliano, Tognon, Rigamonti.
Vedersela con quelli della Triestina era come entrare a mani nude nella fossa dei leoni: Striuli, novanta chili di cemento distribuiti su un metro e spiccioli di altezza, Blason, Sessa, gente simpaticissima e amabile fino all’ingresso in campo, ma superata la linea pur di evitare un goal avrebbero menato anche madri e sorelle. Ti mollavano certe zuccate sulla nuca da stordimento. Sessa aveva un bel testone e tutte le volte che saltava in contrasto con Præst, il povero Carl aveva la peggio. Cadeva come una mela e si lamentava: «Boni, non ce la faccio più». Aveva ragione, contro i difensori della Triestina finivi le partite completamente rintronato.
In quello stadio ho segnato un goal senza volerlo e poi le ho quasi prese. È andata così: Muccinelli ha crossato, ho visto arrivare i mastini e, per ripararmi, ho buttato le gambe in avanti tenendo alte le piante dei piedi. Il pallone ci ha picchiato sopra, del tutto casualmente, ed è finito in porta. Me ne hanno dette di tutte i colori; sono dovuto scappare da Parola, il mio angelo custode. A guidare quella formidabile squadra di lottatori era Trevisan, mezz’ala di grande personalità e burbero abbastanza da mettermi soggezione. Mi prendeva il naso fra le dita e urlava: «Puparìn, (bambino) cosa fai nella nostra area di rigore? Vai nella tua, fila!». Adesso mi scappa da ridere, ma allora non era piacevole. Ero un ragazzino, correvo da Parola e lui mi rispediva in area con un affettuoso: «Va là, falabràc (lazzarone)».
Altra impresa non da poco era affrontare in trasferta il Padova di Rocco. Pin, Scagnellato, Blason, Azzini, Rosa picchiavano come fabbri. Il Paròn li chiamava i miei manzi. Una volta, ancora su cross dal fondo, mi sono visto venire incontro, oltre che la palla, anche Scagnellato. Per la paura mi sono bloccato e Azzini, che non poteva immaginare che io non ci fossi, in rovesciata ha steso il compagno al posto mio. Sono filato via inseguito dai loro “Mona”.
Quello che mi ha picchiato di più è stato Parola, maestro e capobranco ma avversario duro quando gli giocavo contro nelle riserve della Juventus. Nella prima foto ufficiale con la maglia bianconera, ho un occhio nero per una gomitata di Nuccio in allenamento: modo sbrigativo per spiegarmi che il tunnel che gli avevo fatto non gli era piaciuto. Parola mi voleva bene ed io lo adoravo. Era grandissimo, non a caso con la sua rovesciata è stato per anni sulla copertina delle figurine Panini. Se penso cosa guadagnano adesso i giocatori con il diritto d’immagine e cosa non ha mai preso Parola per tutto il tempo in cui ha pubblicizzato l’album con quel gesto tecnico straordinario, divento matto. Ma una soddisfazione e un bel ricordo ce li ho: perché io, quando non ero già più presidente della Juventus, ai dirigenti della Panini tutte queste cose le ho dette: «Quanto vi ha fatto guadagnare Parola senza avere una lira in cambio?». E loro hanno capito. Alla famiglia Parola hanno versato cento milioni, come segno di riconoscenza. E Nuccio, che è stato malato a lungo, ne aveva bisogno. Nella storia della Juventus, Parola occupa un posto importante: giocatore eccezionale, con Valentino Mazzola è in cima alla mia classifica ogni tempo, ha vinto tre scudetti anche da allenatore.
Quando è morto, ho preso la cravatta della mia divisa bianconera e gliel’ho annodata al collo. L’ho fatto io, anche se nella Juventus non avevo più un ruolo operativo. Ma il vecchio Parola alla Juventus ha portato eleganza, signorilità e gloria: non poteva andarsene nudo. La cravatta della mia divisa a Parola quando morì: lui era il simbolo dell’eleganza e della gloria Juventus.

VLADIMIRO CAMINITI
Era un giorno del 1946. Giampiero non ha ancora diciotto anni. Una gomitata in allenamento di Parola gli fa da viatico. Gli lascia il segno su un sopracciglio. Giampiero non si smonta, ci vuol altro. A Borel, allenatore a intermittenza della Juventus, il ragazzo piace. È buttato nella mischia in un match del campionato 1946-47, in casa contro il Milan. La Juventus perde 2-1, e illustri tecnici non apprezzano il biondino di Barengo. Intanto gli si dà credito e il ragazzo sparisce per un po’ dalla prima squadra di una formazione abbastanza avventurosa (Sentimenti IV; Foni e Varglien II; Depetrini, Parola e Locatelli, Magni, Piola, Astorri, Candiani e Lipizer) soprattutto in attacco. Viene riproposto quando è già estate, quel campionato a venti non finiva mai, gioca altre cinque volte, l’esperienza gli è servita, si svela il suo stile originale, nasce la sua intesa con Muccinelli a Livorno, il 29 giugno 1947, è un pareggio, 2-2, Muccinelli e Boniperti danno spettacolo. Presidente della Juventus è Dusio. La famiglia Agnelli è per il momento in disparte. Ma nessun momento dura a lungo. Gianni sta crescendo, è un rampollo pieno di voglie anche calcistiche, è un intenditore finissimo.
I fondamentali di Giampiero sono puri. Forse perché fin dagli anni della crescita ha corso e battagliato con la palla anche nei cortili, ad esempio in quello del collegio De Filippi di Arona, dove ha frequentato come allievo interno le medie. Non è che Giampiero Boniperti ami parlare dell’infanzia o della sua adolescenza, non ama per l’esattezza parlare il nostro laconico biondino, si applica subito nei fatti, si suda in campo ben presto la pagnotta di calciatore vincente, quando la Juventus lo acquista, Boniperti è già adulto come calciatore. Anche questo colpisce del ragazzo diciottenne, la sua serietà sorridente ma riservata, pudica, nei mesi trascorsi a meditare il futuro, dopo lo sfortunato esordio casalingo con il Milan, egli rinforza il carattere allenandosi duro. Gli dà una mano, un giovanotto boemo, che una fame impietosa ha trascinato lontano dalla sua bella cupa magica città di Praga, Vycpálek; è un amico vero, per il giovane Giampi.
Sono i giorni tempestosi della gloria del Torino, una squadra che Ferruccio Novo, con furbizia e buon senso, ha formato proprio negli anni durissimi della guerra; e che ora vince tutto, tranne soffrire nel derby, quando la Juventus gli rende la vita difficile. La prima Juventus di Boniperti è una squadra valorosa, ancorché incompleta; ha tempo per completarsi e parteciperà il destino. Un destino atroce che attende l’aereo del Torino di ritorno da una spedizione di pace. Da quasi due anni rispetto a quell’ingiusta data del 4 maggio 1949, la famiglia Agnelli è rientrata alla base; l’assemblea dei soci ha ratificato il ritorno del figlio di Edoardo Agnelli, Gianni, nella famiglia, per la storia il 22 luglio 1947. E l’occhio di Gianni Agnelli ha subito notato il calciatore nuovo, senza ghiribizzi o stranezze, gli consentirà di arricchirsi da campione costruendogli attorno, anche e specialmente per onorare la città e il ricordo dello squadrone scomparso nel sangue, un capolavoro di squadra. Boniperti se l’è meritato nel più lungo campionato della storia, 1947-48, a ventuno squadre, ogni domenica una riposa, si attacca a settembre e si finisce a luglio, una maratona massacrante, qui si forma un campione, qui mette le ossa, comincia la favola di Boniperti, quaranta partite e ventisette goal, capocannoniere davanti al suo stesso idolo, l’imperversante formidabile mastino, pure lui biondo, capitan Valentino Mazzola.
Un giorno ammetterà di non amare troppo allenarsi, tanto che lui e i compagni si stancheranno presto non dico del bizzoso Chalmers incompetente ma del pur bizzoso ma talentuoso, stratega e stregone, Jesse Carver, che li ha capeggiati a vincere lo scudetto più meraviglioso, nel campionato 1949-50. Molti hanno scritto che è la più bella Juventus mai esistita (Viola; Bertuccelli e Manente; Mari, Parola e Piccinini; Muccinelli, Martino, Boniperti, John Hansen e Præst). Forse è un’esagerazione. Certo, prudenza e audacia, fantasia e concretezza, sono nel suo bagaglio, come in quello di Giampiero, che segna goal divini, con il suo piede trentotto, che è flessuoso e acrobatico, che è l’erede in tutto del suo maestro Farfallino Borel. Boniperti detto Boni. Gli avversari, ad esempio quel matto totale di Lorenzi, gli appioppano nomignoli irrispettosi, come Marisa. In realtà, non si era mai visto un calciatore così riservato e così rispettoso fuori campo, quanto in campo è abile opportunista e sagace tattico.
I giorni passeranno, in Nazionale proverà ogni emozione, letizia e tristezza, anche forti amarezze. Ne sarà capitano, la Juventus gli verrà cambiata dieci volte attorno, minaccerà di sfaldarsi non appena Gianni Agnelli dovrà lasciarne la presidenza, si vedrà crescere attorno, Giampiero Boniperti, molti satelliti anche insidiosi. Come calciatore, lo distingue la sua preveggenza. C’è la storia vera delle vacche gravide. L’avvocato Gianni, giovane e generoso non si immaginava scommettendo con Boniperti, che il biondino si sarebbe scelte quelle gravide. Boniperti, figlio di un podestà, nasce con l’istinto dell’agricoltura, con il senso del risparmio nel sangue.
Nella difficile Juventus di Omar Sivori e John Charles, Boniperti la farà da regista con inimitabile puntiglio nei servizi e nel piazzamento. Scriveranno che in campo dirigeva anche gli arbitri. Aveva un enorme carisma, questo sì, rappresentava in toto la Juventus, come essa era stata negli anni antichi e come continuava a essere anche con il suo esempio.
Si può affermare che Boniperti capitano suggellasse passato e futuro; è nato con lui il calciatore come professionista, la stessa attività di calciatore assume contorni più precisi, una sua distinzione. Il calciatore forte e malizioso nella lotta, che non tira mai indietro il piede, e disponibile per utili consigli comportamentali, fuori, con i compagni, molti dei quali sperperano i dorati guadagni.
Giampiero Combi si era ritirato dopo aver conquistato il titolo di Campione del Mondo. Boniperti decide di saltare il fosso l’indomani dello scudetto 1960-61. Lascia campo libero all’idolo nuovo Omar Enrique Sivori. Esce senza dichiarazioni roboanti, com’è nel suo stile di uomo, di fare precedere a poche meditate parole, tanti fatti succosi. Sarebbe sparito dai giornali per un pezzo, prima di ricomparire, convocato dall’Avvocato al capezzale della Juventus. Per farla rinascere, per rinascere insieme, rivivendo anche da presidente la sua favola di invincibile. Del più scudettato presidente d’Italia, il campione redivivo anche dietro una scrivania.

ALBERTO REFRIGERI, “HURRÀ JUVENTUS” AGOSTO 2011
Sono passati più di sessant’anni da quando ebbi la fortuna e l’onore di conoscere Giampiero Boniperti. Proprio in ricordo di questi periodi trascorsi, prima come amico-tifoso, e poi come suo addetto stampa, dal 1971 in poi, voglio raccontare alcuni episodi, poco conosciuti, avvenuti durante la lunga “convivenza” con il mio presidente. Lo chiamerò sempre il mio presidente, perché il nostro è stato un rapporto prima di amicizia e stima, e poi di completa fiducia professionale.
Ho conosciuto Boniperti nel lontano 1948, sul treno che portava i giocatori e qualche tifoso, che oggi sarebbe definito VIP, a Bergamo per l’incontro con l’Atalanta. Ricordavo che era appena iniziato il campionato, ma per individuare la data esatta ho dovuto fare ricorso all’Almanacco bianconero, che ha così sentenziato: 17 ottobre 1948, Atalanta due – Juventus quattro, con tre goal di Boniperti e uno di Muccinelli. Questa era la formazione bianconera: Sentimenti IV, Angeleri, Caprili, Depetrini, Rava, Locatelli, Muccinelli, Cergoli, Boniperti, Sentimenti III, Caprile. Allenatore l’inglese Jesse Carver.
In quei primi anni del dopoguerra, la Juventus, per determinate trasferte, si serviva, o dei tradizionali pullman o dell’aereo, ma anche della Littorina, che all’epoca poteva quasi essere definita un charter sui binari. Un vagone riservato alla squadra, ai dirigenti e a una quarantina di tifosi privilegiati, fra cui il sottoscritto e mio padre, grande tifoso bianconero (che mi sia permesso ricordare nacque il primo settembre 1897, accadde a due mesi prima della grande Juve).
Proprio in quel viaggio scoprii che Boniperti abitava a Torino in Via Morghen, a pochi passi dalla mia abitazione: eravamo entrambi giovani e nacque naturalmente un rapporto che dura tuttora e che mi ha visto seguirlo prima come tifoso, poi come giornalista di “Tuttosport”; infine come suo collaboratore, in qualità di addetto stampa e direttore di “Hurrà Juventus”. In quei tempi i miei incontri con Giampiero erano praticamente quotidiani: ci trovavamo molto spesso ad acquistare il giornale da Giovanni, il più vecchio edicolante in Torino ancora in attività. Sin da allora, ho sempre considerato Boniperti un personaggio concreto, duro, vincente. Leale ma spietato con chi non risponde con le stesse armi. Ricordo che ripeteva spesso una frase: «Io perdono, ma non dimentico». E i giornalisti lo sapevano bene: una delle caratteristiche di Boniperti, è quella di aver avuto con la stampa rapporti cordiali ma difficili. Come scrisse un grande giornalista, di fronte alle domande di solito sceglieva di trincerarsi dietro un amabile sorriso e un cordiale buffetto sulla guancia.
Ma torniamo a parlare della nostra giovinezza, ai beati vent’anni, quando eravamo entrambi iscritti alla Facoltà di Economia e Commercio, in Piazza Arbarello a Torino. Lui diede il primo esame in Economia Montana e Forestale, materia nella quale (provenendo da una famiglia di agrimensori), era particolarmente versato. Rimediò, probabilmente con la complicità di un professore juventino, un accettabile ventisette. Poi non continuò gli studi, considerato che il tempo per allenamenti, partite, trasferte, non era compatibile con un’accurata preparazione universitaria. Anch’io, pur senza la scusa degli allenamenti, rimediai qualche stiracchiato diciotto e poi abbassai la guardia.
Ciascuno di noi ha una squadra preferita nel cuore, una squadra che, come si dice, non si cambia per tutta la vita. La moglie si può cambiare, la maglia no. Sarebbe interessante conoscere davvero di quale squadra fossero tifosi i calciatori. Si sa che Baggio era interista e che Del Piero è sempre stato juventino, per esempio. Poco tempo fa, in una conversazione telefonica con una TV locale, il vecchio allenatore Gustavo Giagnoni, che per qualche anno guidò il Toro, fece intendere di aver avuto in gioventù simpatie bianconere. Giampiero Boniperti, invece, non ha mai nascosto la propria fede bianconera. Anzi, proprio per la sua passione ha rinunciato a rilevanti guadagni presso società che da calciatore lo avrebbero pagato a peso d’oro. Un tifo per i colori bianconeri, il suo, sempre discreto e sempre rispettoso verso l’altra squadra cittadina. Rispetto sì, ma fino ad un certo punto; come quella volta, si era agli inizi degli anni Novanta, quando accompagnai da lui un bravissimo telecronista, oggi a SKY, che voleva conoscere il presidente. Boniperti lo ricevette con la massima cordialità, ma lo inquadrò subito: «Vedo che lei ha il distintivo granata! Grande squadra il suo Torino, dove avevo tanti amici, però si ricordi che io vi ho fatto ben tredici goal in campionato e uno in Coppa Italia!».
Il mio presidente ha sempre dato grandissima importanza al fatto che i calciatori si sposassero in giovane età. Negli anni della sua presidenza cercava di favorire e, se possibile, accelerare i matrimoni dei suoi giocatori. Mi diceva: «Devo molto a Rosy. Un’unione riuscita come la mia credo sia l’ideale per un giocatore che deve concepire lo sport come regolarità di vita».
A Finale Ligure, dove Boniperti conobbe la ragazza che sarebbe diventata sua moglie, successe un fatto più che curioso, e che pochissimi conoscono. La località savonese era il nostro incontro vacanziero, stessa spiaggia stesso mare. Boniperti andava ai Bagni Lido di proprietà di un ex calciatore degli anni Trenta, signor Diena, io ai bagni Elios, confinanti. Erano gli anni del Boniperti nel pieno fulgore, capitano della Juventus e già in Nazionale, idolo delle ragazzine e ricercatissimo per gli autografi da parte di tutti i bagnanti di ogni fede calcistica. Vi lascio quindi immaginare cosa successe in spiaggia verso le sette di sera. Se ne erano andati quasi tutti e si stava svolgendo una partita di calcetto: tutto nella norma, quando un urlo selvaggio spezzò quell’atmosfera godereccia: «Mi son rotto il polso!». Era Boniperti che, tentando un dribbling, aveva appoggiato male la mano sulla sabbia e urlava dal dolore. Tutti attorno al campione che si lamentava, e immediatamente scattò la ricerca di un medico, che fortunatamente era presente fra i bagnanti e lo trasportò in ospedale. Appena entrato al Pronto Soccorso, il medico si rivolse all’infermiera di turno affinché gli venisse fatta al più presto una radiografia: «Capisce sorella, si tratta di Boniperti!». E la suora, con due occhi raggelanti replicò: «Boniperti chi?».
Era il 3 giugno 1972, il giorno dopo la conquista del suo primo scudetto da presidente. Siamo all’albergo Principi di Piemonte, lo stesso che oggi ospita la squadra prima delle partite interne. Tavolata con 500 invitati per dirigenti, giocatori e tifosi VIP. Al centro Boniperti con a fianco Gianni Agnelli, a destra, e Umberto Agnelli, a sinistra. Il presidente, ovviamente acclamatissimo, inizia il suo discorso con una battuta che dice molto del suo rapporto con i due fratelli: «Come potevo non vincere questo scudetto con due mezze ali così?» Ovviamente gli applausi furono scroscianti, per lo scudetto e per la battuta.
Tante volte, dagli spalti dello stadio, osservo gli spettatori che seguono la partita. Molti tranquillamente seduti, alcuni invece con occhi sbarrati, altri super concentrati con una forza interiore che cercano di trasferire ai giocatori in campo, che in quel momento sono i loro idoli. A tal proposito mi raccontava Boniperti che una volta si trovava a Roma per una riunione del Coni e alloggiava in un grande albergo del centro. Una mattina il direttore gli si avvicinò: «Presidente, posso chiederle una cortesia? Abbiamo nostro ospite un importantissimo industriale, tifoso della Juve e di lei in particolare, che vorrebbe conoscerla personalmente». La risposta fu positiva e Boniperti mi confessò che vedere quel signore di età avanzata e molto potente («Per essere ricevuto da lui bisognava passare almeno da dieci segretarie», mi disse) quasi con le lacrime agli occhi per il solo fatto di averlo incontrato lo aveva fatto sentire in imbarazzo: «Dentro di me (mi disse) ho pensato che avrebbe chiamato l’autista, mi avrebbe fatto caricare in macchina e mi avrebbe messo in mostra nel suo giardino».
Per terminare questo viaggio attraverso la mia vita con Boniperti, voglio ricordare un momento difficile per tutti noi tifosi. Per un certo periodo (tra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta) la Juve restò per troppo tempo senza vittorie e Boniperti, giocando d’anticipo, diede le dimissioni. Era il 5 febbraio 1990. Poi, circa un anno e mezzo dopo (siamo nel giugno del 1991) successe un fatto strano, di cui poi avrei capito meglio il significato. Non sentivo il presidente da tempo (era quasi sempre a Roma, al CONI) quando una sera, verso le ventidue e trenta suonò il telefono di casa: «Ciao, sono Boniperti, arrivo adesso con il volo da Ciampino, sono in macchina e sto andando a casa. Tu come vai?». Abbastanza bene, dico io: «La signora?» Anche lei benino, rispondo: «Cosa stai facendo?». Guardo un film in TV. «Ciao, ti saluto e ti bacio in fronte».
Conoscevo il presidente da molto tempo oramai e sapevo che era tipo di poche parole, ma che mi telefonasse a casa la sera tardi solo per salutarmi non era mai successo. La cosa non convinceva né me, né mia moglie. Comunque entrambi gradimmo il saluto. E tutto finì lì. Un paio di giorni dopo aprii i giornali: titoli a nove colonne: «L’avvocato Agnelli richiama Boniperti alla guida della Juventus come amministratore delegato, con mandato triennale». A quel punto mi fu spontaneo pensare che quella telefonata fosse un modo, indiretto, se non subliminale, per anticiparmi quella notizia che non poteva ancora rendere nota. In realtà non gli ho mai chiesto se fosse davvero così, perché voglio illudermi che il sottoscritto fosse fra i pochi degni di ricevere, anche se in codice, un importante segreto.

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RAFFAELLA “Nucleare” è il nuovo singolo

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