Di Riccardo Gramazio (Ricky Rage)
Forever Changes dei Love, band capitanata dall’hippie meticcio Arthur Lee, è da considerare a tutti gli effetti un tassello imprescindibile, un capolavoro, una pietra miliare del rock. Eppure, il lavoro continua quasi a palpitare nell’ombra, e sottolineo quasi, surclassato dal leggendario strapotere dei titani della musica che tutti noi conosciamo e veneriamo.
Pubblicato nel ‘67 dalla Elektra Records, l’album, pregno di colori onirici e turbinosi, apre realmente porte in grado di proiettarci in mondi surreali, psichedelici e trascendentali. Uso questi termini, ma potrei andare avanti per interi paragrafi. Tutto viaggia in maniera leggera e profonda, e proprio leggiadrezza e intensità tinteggiano le undici canzoni.
Il 1967, l’anno delle bombe americane in Vietnam, del primo trapianto di cuore e della prima trasmissione in mondovisione, Our World. Il 1967 di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, di The Piper at the Gates of Dawn dei Pink Floyd o dell’omonimo esordio dei Doors. Insomma, 1967, tanti avvenimenti importanti sull’agenda. Difficile per qualsiasi nome riuscire a ottenere spazio in prima pagina.
Ai ragazzi di Los Angeles, ai figli dei fiori, la proposta dei Love piace, chiariamolo, piace moltissimo, da quelle parti è concettualmente la migliore, ma il grande botto non arriva, complici sicuramente la concorrenza e lo spirito controverso di Arthur Lee.
Il disco è molto diverso rispetto ai due precedenti (Love e Da Capo), sicuramente più intellegibile, ma la band non ha in mano le giuste carte per prendersi il mondo. No, il mondo spetta ai Doors, a Jim Morrison, e i contabili dell’Elektra hanno comunque materiale per cui gioire.
In pratica, come testimoniano tempo e recensioni, Arthur Lee e compagni sono destinati a trovare gloria ovunque senza però essere ovunque. Un senso di gloria misterioso, paradossale, annebbiato e racchiuso egregiamente in una gemma ben distante dai piani altissimi.
Traducendo alla meno peggio, Forever Changes è un disco cult, un tesoro piuttosto silenzioso a dispetto dell’oggettiva bellezza, dell’oggettiva straordinarietà.
Okay, devo ammetterlo, sto assaporando (realmente assaporando) la musica dei Love solo in questo momento, in cuffia, perché anche io, in questi lunghi anni di passione e di curiosità, ho badato soprattutto ai venti, trenta, cinquanta nomi più altisonanti. Colpa mia, signori, perdonatemi, ma sto cercando di redimermi con questo articolo, al quinto o al sesto ascolto. Gusto, apprendo e scrivo, allora, è il minimo che io possa fare per onorare questo zircone lucentissimo e ondeggiante nelle zone periferiche.
Come detto, la mente principale del progetto è quella del cantante e chitarrista Arthur Lee, amico e fan di Jimi Hendrix, animo tormentato, piuttosto propenso ai guai e, ahimé, sconfitto nel 2006 dalla leucemia, dopo eterne avventure nelle terre dell’anonimato. Parliamo di una figura talentuosissima e anticonformista, di uno spirito libero, per certi versi somigliante a quello del visionario (e ben più acclamato) Syd Barrett, altro punto di riferimento dell’universo psichedelico. Il leader dei Love è un composto di carisma, di estro e di irritabilità, o almeno, così narrano le storie metropolitane che lo vedono protagonista, storie talvolta sinistre e che profilano l’archetipo del genio underground. E ancora una volta c’è Los Angeles a prendersi determinate personalità, c’è una città tanto esposta al sole quanto alle ombre e alla dannazione.
Artur Lee non è Syd Barrett, non è Jim Morrison, giusto per riprendere due nomi, ma sembra realmente possedere pari doti artistiche. Silenzio e rumore in un colpo solo; è più o meno questa la chiave di lettura, la sintesi massima di questo artista.
Ma la forza dei Love non è costituita soltanto dall’inventiva del frontaman. Imprescindibile infatti il contributo di Bryan MacLean, chitarrista ritmico, seconda voce, curatore degli arrangiamenti e talvolta autore (Alone Again Or e Old Man), capace di far coesistere beat, folk, psichedelia, musica mariachi e persino flamenco. Un grande musicista, MacLean, un altro personaggio dallo spirito perturbato e che non può certo passare inosservato. Da ricordare, per esempio, il suo convintissimo avvicinamento al cristianesimo, al credo evangelico di Vineyard, pensiero abbracciato per giunta anche da Bob Dylan, che lo accompagnano fino al Natale del 1998, giorno della morte.
Tante storie affascinanti ed enigmatiche arricchiscono la percezione dei Love, che con questo terzo disco regalano suggestioni, viaggi e singolari malinconie. D’altronde, lo stesso Arthur Lee, alle prese con i demoni della tossicodipendeza, sembra davvero esporre nelle canzoni quelle che potrebbero essere ultime e risolutive parole.
Forever Changes, lontano dal successo terreno, ma vicino a contesti oltremondani. Album da recuperare assolutamente e che, per fortuna, sto recuperando.
Un’altra manciata di ascolti e per me non sarà più possibile farne a meno. Disco storico per tutte le occasioni…