Articolo di Adriana La Trecchia Scola

 

Questo fondamentale interrogativo è noto in ambito russo. È stato prima il titolo del celebre romanzo dello scrittore russo Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, composto tra il dicembre 1862 ed il 1863 nella fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo dove era tenuto prigioniero, quale feroce critica alla politica zarista. Poi, per ispirazione, il titolo della più importante opera politica di Lenin, scritta tra l’ autunno del 1901 e il febbraio del 1902, che teorizzava la formazione di un partito rivoluzionario composto da rivoluzionari di professione, che solo avrebbe potuto dirigere una rivoluzione socialista “scientifica”. Secondo il politologo britannico Lih il testo di Lenin è stato ampiamente frainteso in parte a causa di errori di traduzione di termini chiave (come il concetto di spontaneità riferito ai lavoratori). Inoltre il pamphlet è stato interpretato in base a “tre filoni che si rafforzano a vicenda”. Il primo è che l’ essenza della visione di Lenin è la sua  perdita di fiducia nei lavoratori e la sua volontà fanatica di rivoluzionario, il che ha dato alla luce l’ idea di un partito basato su “rivoluzionari di professione”. Il secondo è che la visione di Lenin consiste in una profonda revisione dell’ ortodossia marxista. Il terzo è che questa profonda innovazione risulta esposta in Che fare?, che rappresenta il documento di fondazione del bolscevismo e il testo chiave per capire il comunismo tutto. Lenin riteneva che per capire la politica è necessario comprendere tutta la società, non solo i lavoratori e le loro lotte economiche con i datori di lavoro. “La coscienza politica di classe può essere portata ai lavoratori solo dal di fuori; vale a dire, solo dall’ esterno della lotta economica, al di fuori della sfera dei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro”. Nel 1904, Lev Trotskij, che in seguito divenne un ardente seguace di Lenin, criticò l’ opuscolo definendolo una “caricatura alla Robespierre” e dichiarando che l’ approccio di Lenin avrebbe inevitabilmente portato all’ instaurazione di una dittatura sanguinaria sulla falsariga del periodo del Terrore durante la rivoluzione francese. In realtà la figura storica di Trotsky è emblematica perchè l’ ideologia sessantottina di sinistra ne ha fatto un punto di riferimento come libertario, pacifista, egualitario. Al contrario Trotskij è stato un reazionario, collettivista, pro-terrorismo come dimostra la sua opera Terrorismo e comunismo (forse l’ opera più radicale del comunismo del Novecento). In essa ricorre frequente il concetto di sterminio dell’ avversario, in quanto  non era sufficiente la vittoria tra le parti avverse (da una parte i rivoluzionari o bolscevichi o rossi, dall’ altra le forze controrivoluzionarie o bianchi, appoggiate dalle potenze occidentali). Molta critica ha fatto finta che questo testo non esistesse, creando la contrapposizione tra trotskismo e stalinismo. Invece Trotskij può essere considerato precursore di Stalin, per l’ anticipazione del dominio del partito unico, del lavoro obbligatorio e militarizzato, l’ uso legittimo del terrore rivoluzionario, divenuto sotto Stalin terrore di Stato. La cultura russa ha sempre temuto lo stato russo, perchè non è la cultura ad essere imperialista e ad attuare crimini che segnano il fallimento della civiltà russa. I crimini vengono compiuti dal regime che ha sempre cercato di cancellare la cultura, a meno che essa non serva ai fini di stato. Così la storia della cultura russa è la storia di una disperata resistenza, nonostante schiaccianti sconfitte, contro un potere statale criminale. Infatti il silenzio del popolo russo è una strategia di sopravivvenza che si tramanda da generazioni, come recita l’ ultimo verso del Boris Godunov di Puškin: “Il popolo tace”. Il silenzio è sicuro, perchè chi è al potere ha sempre ragione, gli altri devono limitarsi ad obbedire agli ordini. Un antico adagio dice: “Non augurare la morte a un cattivo zar”. Il prossimo potrebbe essere peggiore. Secondo lo scrittore e traduttore russo Mikhail Šiškin “le domande russe ‘eterne e maledette’ vengono dalla letteratura russa del XIX secolo: ‘chi è il colpevole?’, ‘che cosa fare?’. Erano domande importanti per il pubblico dei lettori ‘russi europei’. Ma per i centocinquanta milioni di contadini, che non sapevano leggere, la domanda importante era (ed è): ‘lo zar è legittimo o è un usurpatore?’. La sola prova era la vittoria sul nemico. Agli occhi del popolo Stalin è stato uno zar legittimo, mentre Gorbaciov, che ha perso la Guerra fredda, è stato un ignobile impostore. La vittoria in guerra è l’ unica legittimità del potere in Russia, non quella che viene dalla vittoria alle elezioni, che il potere falsifica sempre”. Šiškin: “La maggior parte dei russi è rimasta nel passato e si identifica con la propria tribù (mentalità tribale). Siamo buoni per definizione. Gli altri sono nemici. Combattiamo una guerra senza fine per la conservazione della nostra tribù, del nostro territorio e della nostra ‘civiltà’. Siamo soldati e difendiamo il nostro mondo, come hanno fatto i nostri antenati, e lo zar al Cremlino è nostro padre e comandante. La nostra causa è giusta e la vittoria sarà nostra!. Non ci assumiamo nessuna responsabilità. Ci conduce il nostro capo/ khan/ zar e noi eseguiamo solo i suoi ordini”. Il sistema del potere politico russo è rimasto immutato e immutabile nei secoli: una piramide di schiavi che adora il khan supremo. Gli schiavi generano una dittatura, la dittatura genera schiavi. L’ unica via d’ uscita da questo circolo vizioso è proprio la cultura (quella che ha aiutato i prigionieri sovietici a sopravvivere). Il 25 giugno 1935 Boris Pasternak ha dato la più alta definizione di cosa sia la poesia al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, tenutosi a Parigi e a cui partecipò per ordine di Stalin, altrimenti la sua assenza sarebbe stata attribuita a ragioni politiche. “La poesia rimarrà sempre uguale a se stessa, più alta di ogni Alpe d’ altezza celebrata: essa giace nell’ erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra; essa sarà sempre troppo semplice perchè se ne possa discutere nelle assemblee; essa rimarrà sempre la funzione organica dell’ uomo, essere dotato del dono sublime del linguaggio razionale, di maniera che quanto più ci sarà di felicità a questo mondo, tanto più facile sarà essere artisti”.

 

Dopo otto anni dal loro ultimo album (The Magic Whip), i Blur hanno annunciato un nuovo disco (The Ballad of Darren, composto da dieci inediti) che uscirà il 21 luglio per l’ etichetta Parlophone con la suggestiva cover del fotografo britannico Martin Parr. Intanto la band ha pubblicato il nuovo singolo, The Narcissist, che anticipa appunto il disco e il tour europeo di quest’ estate, con anche una data in Italia. Il ritorno dei Blur potrebbe sembrare un ritorno nostalgico e ripetitivo del Britpop: il genere degli anni novanta di cui sono stati principali esponenti (storica la rivalità con gli Oasis). Invece Damon Albarn e soci sono ancora capaci di essere brillanti e diversi. I Blur non sono una band che cerca di aggrapparsi a un’ epoca che li ha resi famosi, ma sono sempre stati coerenti alla loro età e al cambiamento. Così The Narcissist è un brano malinconico che ricorda i bei tempi, ma affronta il presente con euforia. Il significato di The Narcissist consiste  nell’ intento di dare delle suggestioni di affrontare una ricerca introspettiva per prendere maggiore coscienza di sè, evocando immagini in sequenza: il solstizio, le pause nelle stazioni di servizio, le droghe, il generico tentativo di trascendere, di migliorare, di superare il proprio ego. Ma più direttamente The Narcissist riguarda una figura narcisistica che riflette su di sè: “Farò splendere una luce nei tuoi occhi (nei tuoi occhi)/ Probabilmente la farai splendere in me/ Ma non cadrò questa volta/ Con un pò di fortuna ascolterò i sogni”. Damon Albarn ha detto: “Questo è un album di assestamento, una riflessione e un commento sul punto in cui ci troviamo ora”.  L’ amico chitarrista Graham Coxon ha proseguito: “Più invecchiamo e più ci arrabbiamo, diventa sempre più essenziale che ciò che suoniamo sia carico della giusta emozione e intenzione. A volte un semplice riff non basta”. Anche il bassista Alex James si è unito al coro: “Per far durare una relazione a lungo termine con un qualche significato, bisogna essere in grado di sorprendersi a vicenda in qualche modo e in qualche modo tutti noi continuiamo a farlo”. Il batterista Dave Rowntree ha concluso: “È sempre molto naturale far musica insieme. A ogni album che facciamo, il processo rivela qualcosa di nuovo e ci sviluppiamo come band. Non lo diamo per scontato”.
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