Interviste

CONFESSIONI Intervista a Massimo Sebastianutti degli LDV (La Dolce Vita)

 

CONFESSIONI

Intervista a Massimo Sebastianutti degli LDV (La Dolce Vita)

A cura di Riccardo Gramazio_Ricky Rage

Gli LDV, La Dolce Vita, sono una grande band. Fine del discorso e disco da ascoltare obbligatoriamente. Già, ma due righe, prima di lasciare la parola al frontman Massimo Sebastianutti, per contratto dovrei pur scriverle. Allora, la band di Udine è attiva da moltissimi anni, ma solo adesso, tra cambi di formazione e peripezie varie, è riuscita finalmente a regalarci un album, per giunta di livello assoluto. Di livello assoluto, credetemi. Sì, perché Confessions è un lavoro eccellente, una sorta di antologia che questi signori hanno voluto confezionare per proiettarci nei primi ‘80 e per omaggiare determinate esperienze new wave e post punk. Insomma, oltre a proporre bella musica, gli LDV hanno voglia di portare avanti alla grandissima la tradizione. E noi, come sempre, siamo qui. Quante cose fighe abbiamo in Italia? Tante, ma qualcuno preferisce non farcelo sapere. Ci sono io, però, con tutta la passione del mondo! Palla al cantante/chitarrista, ora. Mi raccomando: supportate la vera musica.

Grazie per aver accettato il mio invito, sono contento di averti qui. Dunque, come ti ho detto, ho scoperto il progetto LDV semplicemente girando sui social. Sono sempre alla ricerca di cose interessanti da ascoltare e da suggerire. Secondo te, quanti hanno però voglia di soffermarsi e di prestare un po’ più di attenzione?

Sono pochissimi purtroppo quelli come te che hanno la voglia di soffermarsi e di ricercare nella musica l’originalità e l’unicità. L’interesse e la curiosità che hai dimostrato nei nostri confronti sono per questo tanto più apprezzabili. Viviamo purtroppo in un mondo in cui regnano il disinteresse e l’indifferenza e tutto scorre senza lasciare un segno; l’abbiamo notato anche da parte di “amici” di lunga data che non hanno speso nemmeno una parola di apprezzamento e da cui non abbiamo ricevuto nemmeno un complimento per il nostro album, che è il lavoro di una vita. Troviamo che tutto ciò sia avvilente.

Io parto da un concetto semplicissimo: di qualità ne abbiamo eccome, ma il sistema è sbagliato. Come possiamo restituire la giusta dignità alla musica?

Ognuno dovrebbe fare la sua parte, evidenziando la qualità e fare squadra per portare alla luce ciò che di meglio c’è nella musica, cominciando a boicottare la spazzatura che si ascolta in giro. Penso a programmi come X Factor, la moda delle cover o delle tribute band, la trap, che considero la morte della musica, le radio stesse che, tranne rare eccezioni, non danno spazio a emergenti o a chi vuole sperimentare. Bisogna riformare l’intero sistema, cominciando a rieducare i giovanissimi all’ascolto della buona musica.

Ok, entriamo nel vivo e iniziamo a parlare del vostro gran bel disco. Confessions raccoglie anni e anni di idee, di passioni e di situazioni musicali. Un album nuovo di zecca, ma che ha lo stesso profumo del greatest hits. Ti piace questa mia analisi?

Hai colto perfettamente nel segno. Confessions è il frutto di una sofferta elaborazione; è una sorta di “antologia”, non strettamente cronologica, che ripercorre le varie fasi di esistenza del gruppo, dalle remote origini alla ricostituzione, dopo una lunga pausa, nel 2012, fino ad arrivare a oggi.

È un vero e proprio viaggio nel tempo che, accanto a pezzi “storici”, nati in una cantina all’inizio del 1980 e partoriti da un gruppo di teenager, presenta materiale nuovo, di recente composizione.

Ogni singolo brano è testimonianza del particolare momento storico ed emotivo che il gruppo ha attraversato quando è stato composto. L’album è un diario intimo, i vari pezzi sono delle “polaroid esistenziali” che rispecchiano passioni, ricordi, entusiasmi, ambizioni e aspettative, ma anche momenti di tensione, solitudine, delusioni e frustrazioni di un’intera vita.

La new wave, il post punk, l’Inghilterra dei primi anni ‘80. I grandi nome della scena, quelli che tutti conosciamo è che hanno segnato il periodo, da voi perfettamente assimilati e omaggiati. Che dire, Confessions è un lavoro capace di riaprire determinati cassetti della memoria, ma anche di far avvicinare nuovi ascoltatori, si spera, a un certo tipo di sonorità. Complimenti a parte, come siete riusciti a mettere insieme tutti gli elementi?

Dal punto di vista musicale l’album, come dici tu, è imbevuto di sonorità che risentono del clima e delle sperimentazioni sonore del post-punk e della new wave, soprattutto inglese, di fine anni ’70 e dei primissimi ‘80. Lo stile mio e di Maurizio, membri fondatori del gruppo, si è formato negli anni ‘70, provenendo da radici però molto diverse, rispettivamente punk/post-punk per me e più classic rock e progressive per Maurizio. Ci è riuscito naturale e facile, fin dall’inizio, conciliare i nostri gusti musicali e metterli insieme, è stata un’intesa, un’alchimia quasi magica. È proprio dalla commistione di generi diversi che nasce la nostra musica e forse risiede proprio lì la sua unicità. Non c’è un pezzo uguale all’altro, ogni brano è frutto di ascolti musicali di decenni, è frutto di lunga elaborazione mentale ed emotiva, di una sedimentazione molto spesso inconscia.

Tanti grandi pezzi e una tracklist ben concepita. Momenti diretti e accattivanti fin dal primo ascolto, ma anche vicende più sperimentali. Insomma, in Confessions troviamo diversi possibili singoli e, allo stesso tempo, stimolanti immersioni sonore. I primi esempi che mi vengono in mente per delineare le due pseudo fazioni sono l’irresistibile Too Many Voices e l’ipnotica, quasi cervellotica, Lost (ma qui potrei citare anche il super intermezzo di Artificial)… Cosa puoi dirmi?

Come dicevo prima i nostri pezzi sono frutto di innumerevoli influenze: ci piace la new wave classica, più melodica, ma anche gli sperimentalismi estremi del post-punk. Nell’album questo si sente, abbiamo voluto dare spazio alle due facce, che si compenetrano e si intersecano in un alternarsi di episodi musicali molto diversi. Too many voices è il brano sicuramente più rappresentativo della linea più melodica, a tratti ricorda i Visage per la linea di basso, a tratti gli Ultravox di Midge Ure. Lost è un po’ un outsider, inizialmente non avevamo intenzione di includerlo nell’album: alla fine ne è uscito un fiore selvaggio di rara bellezza, insolito nel suo ritornello, quasi jazzato e dal tocco dub nel riff. Artificial, uno dei pezzi storici dell’album, quello più scarno nella sua semplicità e architettura, a cui siamo molto legati, contiene un intermezzo più sperimentale, fatto di atmosfere spaziali e quasi noise. Comunque ogni brano è un mondo a parte: è proprio l’eterogeneità dell’album forse a renderlo interessante.

E per quanto riguarda la titletrack? Apertura perfetta, mi vien da dire…

Sì, abbiamo voluto simbolicamente aprire l’album proprio con Confessions, il primo pezzo che abbiamo composto nel lontano 1980, quasi a voler stabilire una continuità con il passato, a cui siamo molto legati. Mette subito in chiaro le cose, è perentorio, quasi un manifesto musicale. Pezzo quasi punk, aggressivo ed elettrico, con un’intro potente di batteria. Richiama molto, nel suo nervosismo e nella struttura a pause Girluwant dei Devo, gruppo che adoriamo.

I brani che preferisci? E chiaramente vorrei sapere perchè…

Se dovessi sceglierne due ti direi Too many voices e Shadows. Il primo per la sua maestosità, per la sua disperazione. È un pezzo in cui ho messo molto di me stesso, da un punto di vista emotivo. È anche vero che è proprio un bel brano, molto orecchiabile, infatti è uscito anche come singolo. Il secondo rappresenta perfettamente il mio animo post-punk, è un pezzo pieno di richiami e citazioni per chi le sa cogliere. È più cerebrale, quasi algido. L’abbiamo molto curato in studio, è quello che ha richiesto più tempo in fase di missaggio e post produzione, ne è uscito un vero gioiello, dalle sonorità pressochè perfette.

Come avete realizzato il disco? Con chi avete lavorato e quanto vi siete divertiti in studio?

Dunque, essendo noi della vecchia guardia e della vecchia scuola abbiamo optato per una registrazione in presa diretta, nel senso che abbiamo registrato suonando tutti insieme, come se suonassimo dal vivo o in sala prove normalmente. Il batterista non si è avvalso del click …buona la prima! L’album è stato registrato nell’Alarm Studio di Alberto Armellini a Udine, uno spazio intimo dove da subito ci siamo trovati a nostro agio. Un aspetto cruciale di Confessions è la cura tecnica del suono: volevamo una produzione che, pur con uno smalto attuale, rievocasse con eleganza un’estetica vintage. Ci siamo comunque tanto divertiti nella fase di registrazione e post produzione, tra foto e video girati per immortalare il momento dallo stesso Alberto. Sono stati momenti indimenticabili, è stato quasi un gioco per noi, un ritornare adolescenti, ma anche una ricerca del suono perfetto, degli effetti da inserire, il taglia e cuci, ma ripeto, quasi sempre buona la prima!

Parliamo dei testi, adesso. Le canzoni sono nate in periodi diversi, vien da sé che la filosofia nel corso del tempo sia cambiata. Mi sbaglio?

In realtà non è cambiata molto, abbiamo mantenuto una linea abbastanza costante riguardo gli argomenti e le tematiche, la solitudine per esempio è un tema ricorrente fin dagli inizi. Sicuramente i testi delle prime canzoni risentono di una visione della vita tipicamente adolescenziale e sono imbevuti di riferimenti ai testi dei gruppi che ascoltavamo in quel periodo. Nel corso del tempo sono diventati più intimi e hanno inevitabilmente risentito delle situazioni e delle circostanze della vita che man mano si presentavano, ma rimangono sempre propriamente delle vere“confessioni”, in cui rivelo anche gli aspetti più intimi del mio io.

La vostra è una lunga e piacevole storia, tuttavia il percorso non è stato tutto rose e fiori. Hai voglia di raccontare?

È proprio come dici: una lunghissima storia piena di soddisfazioni e di emozioni. Il percorso però non è stato sempre facile: quattro personalità diverse entrano spesso in conflitto fra di loro e la divergenza di vedute inevitabilmente si è fatta sentire a volte in maniera anche pesante. Per questo motivo abbiamo avuto nel corso del tempo diversi cambi di formazione. La mia pazienza e la mia determinazione però hanno permesso di tenere insieme il gruppo.

Potrei anche indovinare, ma te lo chiedo. I dischi che più ti hanno formato? Dai, tira fuori qualche titolo strano…

Ce ne sono tantissimi: per citarne alcuni potrei dirti Pink Flag dei Wire, Entertainment! dei Gang Of Four e il primi tre dei Devo.

Dal vivo come vi state muovendo?

Dal vivo il nostro impatto è molto viscerale. Cerchiamo manifestamente il contatto con il pubblico. È una costante delle nostre performance, la ricerca della risposta attiva, del coinvolgimento di chi ci viene a sentire. È la manifestazione di quanto intensamente percepiamo l’esperienza live e di

quanto cerchiamo il coinvolgimento emotivo, ma anche fisico, del pubblico. Abbiamo bisogno di una risposta attiva dello stesso. Per noi, inoltre, la “presenza scenica” è fondamentale. Non solamente da un punto di vista estetico, per cui rimaniamo fedeli a una certa immagine, che ci porta ad adottare nei live uno stile volutamente elegante e rigoroso (camicia e cravatta sono quasi un must), ma anche da un punto di vista scenico. Ci piace lasciarci trascinare dalla musica, lasciarci andare, è una cosa che facciamo d’istinto, soprattutto io. Amo il contatto con il pubblico e cerco sempre di trascinarlo e coinvolgerlo. Diciamo che questo atteggiamento si è andato consolidando con l’esperienza e ora ci sentiamo più padroni del palco. Siamo una band caratterizzata da live dinamici ed energici e il pubblico che viene a vederci lo sa e se lo aspetta.

Salutate i nostri lettori, senza però dimenticare di inserire i vostri collegamenti…

Saluterei i lettori con due dei miei motti preferiti: “It’s always ’77” e “Dreams never end”.

Fateci suonare live!

Collegamenti:

Facebook: https://www.facebook.com/ladolcevitaud

Instagram: https://www.instagram.com/ldv.band/

Spotify: https://spti.fi/ldv-band

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