Nasce a Kovin in Jugoslavia, il 18 novembre 1973. Un gigante (187 centimetri per settantanove chilogrammi), arriva alla Juventus nel 1999-2000. Dà i primi calci al pallone nella provincia di Banat, in Vojvodina e nel Radnicki che poi lo cede al Proleter. Ed è qui che Kovačević comincia a sbalordire tutti. Segna subito dodici goal e, nella stagione 1993-94, sale addirittura a ventidue, trascinando la sua squadra alla promozione in Serie A. Alla Vojvodina di Novi Sad se lo ricordano ancora come un incubo, considerato che in Coppa di Jugoslavia le rifila addirittura sei goal. Diventa, così, il giovane campione più ricercato e la Crvena Zvezda, pur di accaparrarselo, versa 1,5 milioni di dollari, che costituiscono il prezzo più alto mai pagato in Jugoslavia.
Oramai Darko è lanciatissimo e quando la federazione organizza nello stadio del Partizan una sfida fra Nazionale A (della quale fanno parte Savicević, Mijatović, Jugović e Mihailović) e una selezione B, è proprio quest’ultima a stravincere per 4-1, con due fantastici goal di Kovačević.
Anche nella sua nuova squadra di club segna a raffica: ventiquattro goal la prima stagione, tredici nel campionato 1995-96 che interrompe, dopo poche partite, per andare in Inghilterra.
Qui Darko ha un attimo di crisi esistenziale che, tuttavia, passa subito quando riesce a trasferirsi alla Real Sociedad. E a San Sebastian, tra i baschi, sul golfo di Biscaglia, diventa un idolo, l’idolo del goal.
Il suo antico scopritore, Zarko Soldo, lo giudica in questo modo: «Quello è sempre in movimento, cambia di continuo posizione e dribbla in velocità. Per fermarlo, ci vorrebbero ventitré poliziotti».
Non tanto diverso il giudizio del presidente della Federazione Jugoslava, Milian Milijanić: «Darko ha un istinto fenomenale ed è un gran dribblatore. Penso sia il giocatore in grado di impersonificare meglio di un altro la figura dell’attaccante moderno».
A Torino, Kovačević si fa apprezzare quasi subito per le sue doti: implacabile di testa, si fa valere anche con la palla al piede, un duro, coraggioso, potente, fortissimo fisicamente, anche se non ha un senso tattico particolarmente sviluppato.
«Darko l’ho voluto io – chi parla è Ancelotti – a tutti i costi, perché sono certo che diventerà un grande. L’ho visto quattro volte in azione dal vivo e mi sono ripassato tantissime cassette che lo riguardano. Bene: se buttano una palla in are a, la becca lui di sicuro. È un campione».
Il primo anno scende in campo quarantaquattro volte (ventisette in campionato, tre in Coppa Italia e undici in Coppa Uefa) realizzando diciannove goal (rispettivamente sei, due e undici); notevole la sua prestazione a Milano contro l’Inter, nella vittoriosa partita per 2-1, con una sua doppietta.
Il campionato successivo è piuttosto avaro di soddisfazioni: arriva David Trézéguet, sul quale la società punta molto e per Darko gli spazi si riducono. Sono solo ventisette le presenze, molte delle quali partendo dalla panchina con sei realizzazioni.
Gestito malissimo proprio dal suo grande estimatore Ancelotti, il primo anno, quando gioca con relativa costanza, ha medie realizzative egregie. Ma, in generale, la gestione dell’organico e in particolare del parco attaccanti, non fu il pezzo forte di Ancelotti nel suo biennio e mezzo a Torino; resta l’impressione generale, che con un altro allenatore, la Juventus avrebbe qualche scudetto in più in bacheca.
La mancanza di continuità è il suo maggior difetto; stimatissimo da Boškov, che non ha mai perso occasione di lodarne le qualità fisiche e caratteriali, non ha mai sfondato neanche in Nazionale perdendo, ad esempio, la sfida con Milosević agli Europei in Belgio-Olanda. L’impressione generale è che non sia un giocatore da squadra ai vertici europei, dove potrebbe riciclarsi come punta di rincalzo; professionista ineccepibile, comunque, e coraggio da vendere.
Nell’estate del 2001 è ceduto alla Lazio, in cambio di Marcelo Salas, nella quale disputa solamente sette partite, prima di ritornare alla Real Sociedad.
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