Questo articolo è apparso, in forma ridotta, su La Verità del 12 gennaio 2019.
Non basterebbero molte pagine per commentare l’ultima moda improvvisa e globale della digitalizzazione a tappe forzate, che per qualcuno – i soliti – dischiuderebbe «l’opportunità per pensare un mondo nuovo e per pensare anche un umano nuovo». Qui si può solo abbozzare una ricognizione preliminare sul tema, con l’intento non certo di chiosare le pretese «rivoluzioni» tecnologiche che lo rimpolpano, ma di raschiarne la patina retorica per ritrovarvi le dinamiche più antiche e familiari di un progetto di dominio degli uomini sugli uomini. Di cui la macchina è, insieme, lo strumento e il pretesto.
Da questa ricognizione emergerà che l’«e-government», il governo digitale, è esattamente ciò che dice di essere: l’ultima carnevalesca livrea della tecno-crazia, del potere sedicente tecnico che nel promettere la svolta storica di sottrarre le decisioni alle debolezze degli uomini… le sottrae agli uomini deboli per riservarle ai forti, come è sempre accaduto. Copertasi di sangue e di ridicolo nei campi dell’economia, svelatasi tribale e violenta in quelli della scienza e della medicina, darà spettacolo di sé con gli ultimi gingilli dell’ingegneria. A risultati invariati.
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In punto fenomenologico colpisce innanzitutto che le sedicenti innovazioni di cui si sostanzierebbe la «rivoluzione digitale» (qui una carrellata giornalistica) sono raramente tali, trattandosi piuttosto di nuove applicazioni integrate e in larga scala di tecnologie che già esistono: internet, le basi di dati, i dispositivi hardware programmabili, gli algoritmi biometrici, poco altro. Se l’innovazione rappresenta lo strumento, l’applicazione detta gli obiettivi del suo impiego: è, cioè, un atto politico. Trattandosi in molti casi di mere fantasie, delle nuove applicazioni non si divulgano di norma le proprietà tecniche ma piuttosto gli scenari sociali, politici e antropologici che dovrebbero inaugurare. Perché, evidentemente, le «novità» da promuovere sono proprio quegli scenari, la visione di un «mondo nuovo» e di un «umano nuovo». Non altro, non le tecnologie, non la tecnoinsalata più o meno plausibile scodellata a contorno.
Il marchio tutto politico dell’operazione trova conferma nel fatto che le applicazioni promesse, secondo il paradigma solito di un capitalismo in crisi di sopravvivenza, non si degnano di rispondere alle leggi di mercato. Per quanto le si strombazzi, non riscaldano l’interesse, né quindi la domanda, di chi ne dovrà fruire. Se la telefonia mobile, la videoscrittura e la navigazione satellitare non ebbero bisogno di essere magnificate e promosse per diffondersi, oggi quasi nessuno avverte la necessità di una blockchain e delle sue applicazioni, né aspetta con ansia la supervelocità di una rete 5G, né sogna di connettere il forno, lo scooter e l’asciugacapelli alla rete. Più spesso, le innovazioni promesse suscitano anzi spavento e rigetto. La schedatura dei dati sanitari e genetici, la moneta elettronica coatta, la geolocalizzazione permanente, i microprocessori sottopelle, la videosorveglianza integrata e il riconoscimento somatico, per citarne alcuni, non sono reputati inutili, ma pericolosi. Eppure avanzano, mentre dovrebbero marcire sugli scaffali. L’esempio più lampante è la novità di quest’anno, la fatturazione elettronica obbligatoria verso tutti, rifiutata dalla totalità dei suoi «beneficiari» e ciò nondimeno imposta prima con il pretesto penoso di un recupero fiscale, poi, gettata la maschera, con quello ancora più penoso di avere trasformato quel risparmio immaginato in un vincolo di bilancio erariale.
Schifata dai consumatori e dalla mano invisibile, la cyber-rivoluzione si rifugia tra le gambe di uno Stato pianificatore che la fa trangugiare ai suoi sudditi come agenda digitale, dove gli agenda, in latino, sono appunto le cose che devono essere fatte. E se i cittadini non scuciono i soldi come acquirenti, sarà Pantalone a farglieli scucire come contribuenti, stanziando ad esempio 100 milioni italiani per la blockchain tanto cara alla Casaleggio Associati e non meno di venti miliardi europei per l’intelligenza (?) artificiale. Cade così, con la fiaba del mercato über alles, anche quella di un progresso tecnologico che a mo’ di locomotiva lanciata sui binari della storia «va governato» perché «inarrestabile», mentre è ormai chiaro che chi se ne dichiara al traino lo sta trascinando: con fatica, con ostinazione e contro la volontà dei passeggeri. In questa miserabile finzione si misura il trapasso limpido dal progresso, caratterizzato da benefici veri o presunti, ma comunque percepiti, alla sua versione violenta e autoreferenziale: il progressismo, che nel nome dell’inesistente – il futuro – si arroga il diritto di coartare l’esistente.
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In punto sociale, l’ipotesi maoista che la digitalizzazione a furor di Stato servirebbe a migliorare anche le condizioni di vita di chi oggi per «ignoranza» ne teme gli effetti, non è storicamente ricevibile. Sarebbe infatti facile osservare che gli anni in cui è infuriata la crisi economica e occupazionale, dal 2008 ad oggi, sono stati anche quelli caratterizzati dalla maggiore affermazione e diffusione di nuove applicazioni digitali: dagli smartphone ai servizi telematici di aziende e pubbliche amministrazioni, dalle videochiamate gratuite alla repressione del denaro contante, fino alla profilazione automatica via social. Rimossi i travestimenti del marketing – dove tutto ha da essere nuovo e «senza precedenti» – si scoprirebbe che la mancata promessa di avanzamento sociale delle innovazioni tecniche imposte dall’alto ha una storia molto più antica, una storia che lascia presagire con certezza il futuro, tant’è i più attrezzati l’avevano prevista e descritta già agli albori della rete internet e dei telefoni cellulari. Così David F. Noble nel 1994 (Progress without People):
… non c’è bisogno di lanciarsi in speculazioni futuristiche… per capire che cosa è successo alle nostre vite e ai nostri standard di vita durante la cosiddetta era dell’informatica… L’autostrada dell’informazione non è che ai suoi inizi e il posto di lavoro virtuale è ancora in larga parte sperimentale, ma le loro conseguenze sono fin troppo facili da prevedere alla luce della storia recente. Dopo mezzo secolo di rivoluzione digitale, le persone oggi lavorano più a lungo, in condizioni peggiori, con più ansia e più stress, meno competenze, meno sicurezza, meno potere contrattuale, meno benefici e salari più bassi. In questi anni la tecnologia informatica è stata chiaramente sviluppata e utilizzata per demansionare, disciplinare e rimpiazzare il lavoro umano, in un crescendo globale di proporzioni mai viste. Chi ancora lavora è fortunato. Perché la tecnologia è stata progettata e sviluppata per stringere la morsa delle aziende multinazionali sulle risorse del mondo, con risultati ovvi e programmati: esautorare e marginalizzare una larga parte della popolazione mondiale, non solo nei Paesi industrializzati; aumentare la disoccupazione strutturale (cioè permanente) e l’emergenza connessa di un esercito nomade di lavoratori precari e part-time, controcanto umano della produzione flessibile; rinfoltire i ranghi di chi è destinato a una povertà perpetua; allargare drammaticamente il divario tra i ricchi e i poveri, riportandolo a proporzioni ottocentesche.
Questo e altri saggi dello stesso autore meriteranno un commento più ampio, per la preveggenza non solo degli effetti di questo ultimo sussulto di rivoluzione industriale, ma prima ancora dei motivi che continuano ad alimentarne la seduzione. Tra questi, il più forte si fonda nell’antica menzogna della «neutralità della tecnica», della scissione irrazionale tra gli strumenti e gli scopi socio-economici per i quali sono concepiti, che da Marx in poi ha illuso generazioni di vittime del «progresso» incatenandole a un culto in certi casi puerile della macchina e delle sue promesse.
Qui è sufficiente richiamare questi pochi cenni e applicarli ai segnali di una «rivoluzione» che, ancora una volta, non rappresenta né un’opportunità né una «sfida», ma il compiersi di una volontà di dominio molto più antica delle macchine, di cui le macchine sono solo l’ultimo mascheramento.
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