Tipo strano, il Marocco: un lungagnone, abilissimo palla a terra, con grande capacità di difendere il pallone, eccellente progressione. Eternamente in bilico tra il ruolo di tornante e quello di seconda punta, è stata un’incompiuta: troppo discontinuo e poco incline a seguire il terzino di competenza per giocare nel primo ruolo, troppo diffidente verso il goal per giocare nel secondo. L’immagine della sua carriera è un’amichevole estiva, nel luglio del 1981, Arsenal-Juventus: a metà secondo tempo Marocco parte da metà campo, semina cinque avversari in progressione ma, una volta arrivato davanti al portiere, con un pallonetto mette la palla fuori.
È sempre stato vestito di bianconero: «Ho esordito a pochi passi da Torino, a Tronzano nella squadra locale, poi un provino fortunato alla Juventus ed ecco tutta la trafila, fino ala prima squadra. Sono stato Campione d’Italia Allievi, vice Campione nella Primavera, ho giocato con Rossi, Marangon e Zanoni, poi ho giocato trentacinque partite in C e altrettante in B alla Cremonese e una in A, a Bergamo. Nell’estate del 1979, finalmente nella Juventus. Penso che, per un giocatore, la Juventus rappresenti il culmine delle aspirazioni, nel senso che giocare nell’Inter, nel Milan, nel Torino, è bello, ma la Juventus ha un qualcosa di più, rappresentato da quel certo fascino che le deriva dal fatto che tutta l’Italia guarda a lei. Quindi, una grossa soddisfazione e nello stesso tempo un notevole sacrificio perché sulle spalle si porta un fardello che non tutti sono degni di sostenere».
La sua stagione d’oro è stata la 1981-82: a causa dell’infortunio di Bettega, la prima linea non era propriamente costituita da autentici e conclamati fuoriclasse: Marocchino, Tardelli, Galderisi, Brady e Virdis. Il Trap sfruttò un Marco Tardelli addirittura sontuoso (che si confermò con un Mondiale super), la regolarità e la professionalità di Liam Brady, seppe spremere la miglior stagione juventina da Virdis, e mise in rampa di lancio Nanu Galderisi (che, complice un Vecio, forse troppo riconoscente, quattro anni dopo giocò addirittura in Messico ai Mondiali). Domenico disputò davvero una grande stagione, giocando quasi sempre e fornendo un contributo di qualità in maniera continua (il suo vero tallone d’Achille). Marocco fece anche una comparsa in nazionale (Italia-Lussemburgo 1- 0).
Con l’arrivo di Platini e, soprattutto, di Boniek era palese che non ci sarebbe stato più posto per lui. Un ultimo anno (1982-83) ricco soprattutto di spezzoni di partite e un repentino declino fisico e psicologico. Fu ceduto alla Sampdoria la stagione successiva e terminò la carriera, a meno di trent’anni, nel Bologna in Serie B, speso invano a cercare di rinverdire un non disprezzabile passato.
Lo stesso Trapattoni confermerà: «Per me è stata una grossa delusione, aveva grandi doti e avrebbe potuto essere fondamentale per quattro o cinque anni, non per uno soltanto».
Un aneddoto: nella gara di ritorno con il Widzew Łódź, nella Coppa Campioni 1982-83, in cui sostituì Bettega, fu accolto all’aeroporto di Varsavia da uno stuolo di ragazzine polacche entusiaste che esibivano un’incredibile striscione con la scritta (in italiano) “Marocchino, vieni a ballare con noi in discoteca”, a testimonianza che Domenico ha spesso, inconsciamente, inteso il calcio come un hobby e non come una professione vera e propria, condizionato, probabilmente, dalla condizione benestante della propria famiglia.
Ma lui nega questa tesi: «Anche in assenza del mio avvocato, smentisco decisamente. Mi sono sempre allenato regolarmente, solo che il mio rendimento non è mai stato troppo costante! Il mio, era un ruolo faticoso che, talvolta, mi portava a fare qualche figura di troppo; per di più, dal punto di vista tecnico non ero ineccepibile e, spesso, mi trovavo a giostrare in posizioni che non mi si addicevano troppo. Anch’io, come tutti, ho dei rimpianti; se potessi tornare indietro, cambierei molti atteggiamenti e qualche scelta. Ma, a questo punto, posso solamente far tesoro delle esperienze di allora, quando ero giovane e un po’ originale nel carattere; a ventisette anni, rinunciai alla Serie A, per giocare a Bologna, sicuro che nel giro di un paio di stagioni sarei tornato nell’Olimpo del calcio. Invece, le cose andarono molto diversamente. Pazienza; sono assolutamente felice di avere fatto, per anni, un lavoro che, per molti, nella migliore delle ipotesi rimane un sogno».
MASSIMO BURZIO, “HURRÀ JUVENTUS” OTTOBRE 1987
Poteva essere un grande della Juventus. Poteva, voleva e ne aveva i mezzi. Per mille e una ragione è rimasto una promessa, uno in cui molti avevano creduto e nulla più. Domenico Marocchino è stato l’uomo delle occasioni perdute e delle grandi illusioni. Ed è un peccato perché potenzialmente il Meco aveva tutti i mezzi per sfondare. Non seppe, invece, tenere fede alle speranze di quanti, in primis Boniperti e Trapattoni, credevano in lui. I motivi sono molti e sarebbe ingiusto e riduttivo, oggi, esprimere soltanto giudizi negativi.
Anzi, la stima e la simpatia che ho per Marocchino mi spinge ad affermare, senza tema d’essere smentito, che il ragazzone di Tronzano poteva essere un titolare inamovibile se soltanto avesse temperato un poco il carattere e le circostanze generali fossero state più favorevoli. Ma a nessuno di noi è data la possibilità di ripetere le prove più importanti della nostra vita: siano esse legate agli affetti, al lavoro o allo sport. E tant’è. Si deve andare avanti facendo tesoro delle esperienze acquisite.
Ma chi è stato Marocchino? Il cavallone discontinuo (e certe volte assente) che tante volte ha fatto penare Boniperti, Trapattoni e i tifosi oppure un ottimo calciatore che ha avuto soltanto la sfortuna di non capire che la Juve concede poche prove d’appello e non può permettersi d’attendere oltre il lecito l’esplosione di un giovane calciatore?
«Ai ragazzi – mi disse un giorno Trapattoni dopo un allenamento, lontani da orecchie indiscrete – la Juve chiede una crescita graduale e costante. Non pretende e non cerca boom, né vuole meteore. Basta maturare giorno dopo giorno».
Per Marocchino non è andata così e, lo ripeto, mi spiace così come dispiacque, ai tempi, a quanti nel calcio vedono un poco più in là del proprio naso e del risultato contingente. Con questo non voglio dire che Marocco non sia personaggio intelligente calcisticamente e umanamente preparato. Anzi. Mi preme, invece testimoniare la storia di un giocatore a cui la sorte ha concesso meno del dovuto. E chi conosce Marocchino, sa che l’uomo è valido, il calciatore è di buon livello e il contenitore è certamente diverso dal contenuto.
Una cosa è certa: Beppe Furino è uno che di calcio se ne intende. Il Capataz era certo delle possibilità di Meco, avrebbe scommesso senza paura sulla carriera del buon Domenico e ancora oggi, come chi scrive, ricorda le belle intuizioni dell’allora giovane collega.
Nato a Tronzano (Vercelli) il 5 maggio del 1957, Marocchino è cresciuto nelle minori bianconere. Poi la provincia con un’escalation: Casale in serie C, Cremonese in Serie B e Atalanta in Serie A. Dovunque attestazioni di merito e approvazioni del pubblico. Nel 1979 Marocco viene richiamato alla Juve: l’intendimento dei dirigenti è quello di farlo diventare prima o poi il vice Causio e quindi arrivare a rilevare il campione leccese.
Con lui (seconda o meglio alternativa paritaria) c’è anche Fanna. Il colpo riesce in parte a tutti e due, anche se a nessuno, Fanna e Marocchino, sarà concessa la possibilità di diventare stabilmente il nuovo Causio. In ogni modo, Marocchino mette in carniere gli scudetti 1981 e 1982 e la Coppa Italia 1983. Un buon palmarès, illustrato nell’arco di un quadriennio da 137 presenze totali (novantanove in campionato, ventidue in Coppa Italia e sedici nelle coppe europee) e da dodici goal (nell’ordine nove, due e uno nelle tre manifestazioni).
Dotato di un buon fisico, di un discreto dribbling e di una vivace intelligenza calcistica, Marocco ha sempre peccato nello scatto e nel tiro (arma, questa, spesso validissima ma sempre usata con inspiegabile parsimonia). Tra le soddisfazioni di Marocchino anche un gettone azzurro: contro il Lussemburgo a Napoli. Poco, troppo poco.
Ragazzo simpatico e divertente, grande tombeur de femmes, amante dei begli abiti e delle buone automobili, Marocchino è stato il tipo giusto nell’epoca sbagliata anche alla Sampdoria dov’è approdato nel 1983 e poi al Bologna. Proprio in maglia rossoblu doveva esserci il grande rilancio. Invece oggi (ma scrivo con grande anticipo, sul finire dell’estate poiché l’amico Refrigeri è attento e preciso custode dei tempi di realizzazione di “Hurrà”) Domenico è rimasto addirittura senza contratto. La regola crudele dello svincolo e precise scelte tecniche del Bologna hanno fatto vivere al vercellese un’estate certamente non felice. Speriamo che quando queste righe saranno state stampate Marocchino abbia ritrovato una squadra. Ne ha tutte le possibilità e lo merita. E poi, se non accadesse, a Marocco resteranno occasioni extra calcistiche e un bagaglio di ricordi e vittorie targate Juve che nulla potrà cancellare.
NICOLA CALZARETTA, “GS” DICEMBRE 2010
A uno come Domenico Marocchino devi voler bene per forza. Impossibile fare diversamente. Divertente, estroverso, sveglio. Un portatore sano di genio, bambino dentro, senza scomodare l’immancabile Peter Pan, con le sindromi a lui associate. Perché il Marocco è una persona sana, anzi sanissima, imprenditore felice, opinionista acuto, con tanto di prole a carico. Non usa il computer, ma solo per pigrizia. Una persona intelligente, che non ha smesso di sorridere alla vita: un modo di essere, uno stile pregiato da quando quattordicenne entrò per la prima volta nel fantastico mondo della Juventus. Ricorda tutto, in special modo la sua prima maglia bianconera: «di lana, a mezze maniche e con il numero otto: bellissima».
Il provino andato bene e Italo Allodi, all’epoca General Manager della società bianconera, che gli ordina di passare dalla sede per la firma sul cartellino. È l’inizio di una favola, che ha come protagonista un giocatore vero, un talentuoso del dribbling, un anarchico borghese. Dal cuore grande e dalla simpatia contagiosa che all’inizio degli anni Ottanta ha toccato il cielo con un dito, vincendo due scudetti con la Juventus. Com’è possibile? «Ti stupisci, né? Li ho vinti davvero. Ventiquattro partite e cinque goal nel 1980-81. ventinove gare e un golletto l’anno dopo. Ho segnato meno, solo un goal, ma ho giocato con più continuità. È stato il mio campionato perfetto. Non mi era mai successo prima di avere così tanta consapevolezza nei miei mezzi e la piena fiducia dell’ambiente».
A quale dei due scudetti sei più legato? «Non c’è differenza. Quando vinci, e lo fai con la squadra che ami, tutti i successi sono belli. Il cuore ti batte forte, sei felicissimo. Piuttosto ci sono delle sfumature diverse tra l’uno e l’altro».
Per esempio? «Il primo scudetto lo abbiamo vinto al Comunale all’ultima giornata contro la Fiorentina. Segnò Cabrini con un sinistro volante, ma il merito fu mio che gli feci un assist perfetto. Fu un’azione caparbia, la palla sembrava persa. La recuperai, la difesi e poi crossai al centro dell’area. Ma la cosa più bella la feci a fine partita».
E cioè? «Fatta la doccia, me ne andai da solo nello spogliatoio del mio primo provino e mi fumai una fantastica Marlboro, con la mente leggera nel ricordo di quel giorno di dieci anni prima».
Già, le sigarette: quante ne fumavi? «Fumavo! Potevano essere tre al giorno come quindici. Il Trap era una bestia. Zoff una volta mi disse: “Moderati”».
Lo hai fatto? «Sì, proprio in quell’anno del primo scudetto. Quando Trapattoni iniziò a farmi giocare da titolare, ebbi l’illuminazione. Andavo a dormire un’oretta nel pomeriggio e iniziai a scalare le sigarette».
A proposito: com’è che il Trap ti mise dentro? «Non andavamo bene all’inizio. Brady ancora non si era integrato. La squadra era un po’ leggerina in avanti e Trapattoni pensò a me. Ma non solo per una questione di peso e centimetri. Gli facevo comodo tatticamente».
In che senso? «Nel senso che io ero in grado di fare tutti e tre i ruoli dell’attacco. Anche la punta centrale, perché ero capace di difendere il pallone. E poi c’è un’altra cosa: andavo a pressare. Mi venne così, d’istinto, fu una mia iniziativa. Ricordo che il Trap; tempo dopo, disse: “Il pressing lo abbiamo fatto per la prima volta con Marocchino”».
E intanto Causio ribolliva in panchina: «Causio era un’istituzione e un professionista esemplare. Con me si comportò molto bene. Certo, l’aver perso il posto lo stizzì parecchio. Ma già l’anno prima avevo fatto diverse partite. Spesso giocavo a sinistra, con lo stesso Causio. Non ti dimenticare che c’era anche Fanna, uno che batteva i corner allo stesso modo, sia di destro che di sinistro, bravissimo ragazzo, oltretutto».
Perché, tu invece come eri? «Hai un’altra domanda?»
No: «Ero giovane, mica potevo pensare solo al pallone. Cercavo di divertirmi, ma l’ho passata liscia poche volte. Boniperti mi conosceva benissimo, da quando ero un ragazzino. Appena tornai, mi fece pedinare. Lui aveva una cerchia di persone, per lo più militari in pensione, che pagava per controllare i giocatori, soprattutto di notte. Ma questa cosa l’ho scoperta un po’ di tempo dopo».
Come? «Una domenica, prima di una partita con il Napoli, chiesi a De Maria (il massaggiatore, ndr) dei laccetti per tener su i calzettoni. Lì vicino c’erano anche Boniperti e Giuliano. De Maria mi dà i laccetti e poi mi dice: “Vai a scaldarti”. E Boniperti: “Ma lui si scalda con le more”. Io spalanco gli occhi e gli dico: “Ma la mia fidanzata è bionda!”. Diavolo di un presidente, mi aveva beccato».
Però non mi risulta che tu abbia smesso di uscire di notte: «Una volta mi videro in giro che erano le tre. Io dissi che era colpa del presidente. Era lui che voleva che i giocatori respirassero aria buona. Ed io lo avevo preso alla lettera. E giù multe».
Quante ne hai pagate? «Tante, al punto che già nel contratto lo scrivevamo e mettevano la cifra, tanto era un evento sicuro».
Quella più salata? «La volta che non mi sono svegliato ed ho dovuto inseguire il pullman della squadra».
Racconto dettagliato, please: «Dovevamo andare a Verona a giocare. Appuntamento come al solito al Comunale. Succede che non mi suona la sveglia. Trapattoni non mi vede arrivare, smadonna, si incazza. È tardi, allora dice all’autista di passare da casa mia».
Sapevano dove abitavi? «Di preciso, no. Mai dare indizi al nemico. Conoscevano il quartiere. Immagina la scena: il pullman della Juve che ciondola per Torino per recuperare un giocatore. Ma io stavo dormendo, quindi la comitiva prende l’autostrada per Verona».
E tu? «Io intanto mi sveglio, mi rendo conto che sono in ritardo e mi fiondo allo stadio. Non trovo nessuno, solo il custode che mi fa: “Devi raggiungere Verona con ogni mezzo”. Prendo l’autostrada e dopo un po’ raggiungo il pullman. La cosa buffa è che i miei compagni che stavano in ultima fila (i vecchi erano doverosamente nei primi posti) mi facevano con le mani il gesto dei numeri».
A indicare cosa? «I milioni della multa. Qualcuno faceva otto, altri cinque, altri tre. Alla fine sono stati cinque, senza fattura. Un salasso. Boniperti mi disse soltanto: “Non ti sei fatto la barba”. Mi voleva bene. Solo una volta mi sono arrabbiato un po’ con la società».
In quale occasione? «Dopo la finale di Atene».
Scusa la parentesi, ma perché la Juve perse quella partita? «Perché giocai soltanto mezzora (ride). Un po’ mi dispiace, perché credevo di partire titolare. A ogni modo i motivi veri sono tre. Primo: ci ha danneggiato il fatto di essere arrivati alla finale imbattuti. Non eravamo abituati alla sconfitta. Secondo: passarono troppi giorni tra l’ultima di campionato e la finale, ci ammosciammo. Terzo: facemmo una partita blanda, mentre quella era una gara da prendere a morsi. Ci voleva uno rabbioso, uno come Furino, che peraltro rimase fuori».
Com’erano i tuoi rapporti con lui? (ride) «Lo so cosa dove vuoi andare a parare. Diciamolo: in allenamento non ero il massimo dell’impegno. Lui, invece, non mollava mai. Nelle partitelle, se poteva, mi voleva contro. Che momenti: prima della partita c’era una vera e propria campagna acquisti. La gestivano i vecchi: Bettega, Furino appunto, Zoff. C’era un po’ di nonnismo, ma sano, positivo. Noi giovani venivamo dopo».
C’era anche Prandelli tra i più giovani, giusto? «Cesare era con me a Cremona e Bergamo. Ragazzo serio, riflessivo, ma anche un giocherellone. Una sera siamo in ritiro a mangiare. Accanto me e a lui, Roberto Tavola. Si parla di fantasmi. Tavola dopo un po’ preferisce cambiare argomento. Si va a dormire. Io e Roberto siamo in camera assieme. Durante la notte mi sveglia e mi fa: “Domenico, smetti di darmi i pizzicotti al braccio”. Ma io stavo dormendo. Lui non mi crede, allora gli faccio vedere le mie mani. In quell’attimo il suo braccio viene pizzicato un’altra volta. Urla, sbianca, si impaurisce, proprio mentre da sotto il letto compare Prandelli che si era nascosto lì per fargli paura. Grande Cesare, si vedeva che avrebbe fatto l’allenatore. Era attento, assimilava, imparava».
E nelle partitelle scommetto che Furino lo voleva con sé: «Sicuramente. Ma sappi che la cosa più bella delle partite, che erano tiratissime, era ciò che succedeva dopo».
E cioè? «Le pagelle con i voti di Carlo Osti. Erano temute. Nello spogliatoio c’era una bacheca. Lui con il pennarello scriveva i voti. Era severissimo. Alcuni andavano e li correggevano, altri li cancellavano».
Tu che facevi? «Niente, avevo sempre voti alti. Osti era il mio compagno di camera».
Vabbeh, torniamo all’arrabbiatura dopo Atene: «Succede che sul volo di ritorno, mi capita una copia di un giornale. In prima pagina c’erano delle foto, tra cui la mia, con una croce sopra. Come dire: questi saranno ceduti. Vado dal dottor Giuliano. “Sono tutte illazioni”, fa lui. Bugia: mi avevano già venduto».
Ma c’era ancora la Coppa Italia da giocare: «Che a quel punto era diventata l’unico traguardo rimasto. Mi feci male, un risentimento muscolare. Boniperti mi lasciò andare in vacanza in anticipo. Me ne stavo bello per i fatti miei, quando arrivò una telefonata dalla sede. “Torna che devi giocare la finale”».
E tu? «Pensai che fossero tutti impazziti. Ero fermo, malandato, non stavo in piedi e dovevo giocare? Oltretutto, dopo che all’andata il Verona aveva vinto 2-0».
Come si è risolta la faccenda? «Boniperti mi disse di non preoccuparmi. “Ti marcherà Marangon, lo conosci. Lui ti viene addosso, tu lo scansi con un braccio e parti”. Feci una scommessa con il presidente. Il doppio del prezzo in caso di vittoria. L’accordo era che avrei giocato il primo tempo. Per cui, nell’intervallo, io mi metto una sigaretta in bocca e inizio a spogliarmi. Arriva Trapattoni e mi tratta malissimo: “Devi tornare in campo”. “Non ci penso nemmeno”, dico io. Mi convinse Cabrini. E vincemmo la Coppa».
Ma nel frattempo avevi fatto arrabbiare il Trap: «Sai che novità. Lo facevo arrabbiare dal primo giorno di ritiro all’ultimo. Arrivavo a Villar Perosa per la preparazione in condizioni disperate. Per le vacanze ci lasciava un biglietto con il lavoro da fare. Non ho mai fatto niente. La prima settimana non parlavo con nessuno, soffrivo in silenzio, non avevo la forza di fare nulla».
Nemmeno un gavettone? «Per quelli la forza c’era sempre. Peccato che una volta presi proprio la moglie del Trap. Ma il Mister per me aveva un debole. La sera prima della partita saliva in camera, mostrava una pallina da tennis e diceva: “La vedi questa cosa qui? Va presa al volo”. La faceva rimbalzare e la riprendeva subito. E poi, prima di uscire, minaccioso: “E quella cosa là, invece, morde”».
Morde davvero? «Ti racconto questa: dopo la fine del campionato 1980-81, c’era ancora la Coppa Italia da giocare. Feci un esperimento: fare l’amore tutti i giorni. All’ultima partita, dopo settanta minuti, stramazzai al suolo dalla fatica».
Aveva ragione il Trap, allora: «Trapattoni è un grande, lo dico davvero. Un maestro, soprattutto di tecnica. Era più allenato lui di tanti di noi. Credeva in quel che faceva. La Juve dei miei due scudetti gli somiglia molto. C’è una partita che secondo me è l’emblema della forza e della capacità di non arrendersi di quella squadra: Juventus-Perugia del 1981. A dieci minuti dalla fine stavamo perdendo 1-0. Alla fine si vinse per 2-1, il goal decisivo lo feci io di stinco, all’89’».
Ma fu una partita con molte polemiche: Bettega venne anche squalificato per le frasi a Pin. Cosa ricordi? «Bettega era uno che, se lo provocavi, diventava una belva. Non so se ha mai detto a Pin di lasciarlo segnare. So che quella Juve aveva una tale voglia di vincere e tali e tanti campioni che riusciva a superare ogni difficoltà. Anche in questo Trapattoni è stato bravo, soprattutto con i giovani. Ti stava sempre addosso. Anche se a volte sfiorava la paranoia».
A cosa ti riferisci? «Prima di ogni partita mi mettevo le scarpette senza i calzettoni. Era un mio rito, un tic, era il mio modo di concentrarmi. Lo facevo tutte le volte. E lui mi urlava di mettermi subito i calzettoni perché temeva potessi giocare senza».
È mai successo? «No, però è successo che abbia giocato per un campionato intero con una scarpetta rotta in punta dalla quale usciva il calzettone bianco. Così, ogni tanto, dovevo chinarmi per rimetterlo a posto. Un modo come un altro per tirare il fiato. La verità è che sono un pigro. A Cremona ho dormito per un anno con una cassetta di acqua minerale sotto il letto che si era rotto in due».
Mi ricordavo delle scarpe nel frigorifero: «Vero anche quello, ma a scoprirle fu un mio compagno al quale avevo prestato la casa. Disse, questo qua avrà sicuramente qualcosa di fresco da bere. Ci trovò due mocassini».
Stranezze in campo ne hai mai combinate? «In ordine sparso: una volta ho calciato fortissimo verso la porta, il pallone è andato fuori, mentre la scarpa ha centrato l’incrocio dei pali; ho fatto un goal di testa in tuffo al Catanzaro (mi marcava Ranieri), io che di testa ho sempre preso pochi palloni; ho fatto diciassette palleggi consecutivi a San Siro contro il Milan e sono finito dentro il film “Eccezziunale veramente”».
Hai qualche rimpianto? «Ho fatto quattro anni alla Juve. Con la testa di oggi, ne avrei fatto come minimo il doppio. Mi è mancata la costanza. Quando scali la montagna, devi avere il coraggio di scendere. Ma io ho vissuto il calcio come uno sport, non come un lavoro. E sono un uomo felice».
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