Grande centravanti della Juventus Anni Trenta. Polemico, senza peli sulla lingua, non entrò mai nelle grazie del Ct Pozzo
Felice Placido Borel fu un gran bel tipo, anzi certamente uno dei più straordinari gran bei tipi della storia del calcio italiano. Fu soprannominato «Farfallino» per la leggerezza della corsa che tramutava il pallone in sferzanti traiettorie. Fu Pozzo a definire eloquentemente la tecnica di «Farfallino», una tecnica dosata sulla precisione del tocco, «nessuna cannonata ultra potente, ma un tocco che manda la palla in quell’angolo o in quel settore della rete dove il portiere non può umanamente arrivare. Più secco, fatto di breve ma fulmineo movimento del piede il tiro di Meazza, più frutto della leva della gamba quella di Borel».
E il maestro non precisava la cosa ancor più preziosa: che Borel possedeva un piede numero 36, era cioè il più mirabolante piedino di quel calcio. Oltre che un mirabolante piedino, Felice Placido era anche un mirabolante rompiscatole; fu il campione anarchico per eccellenza, nel senso di costumi e degli obblighi professionali che intendeva come voleva. Fu un borghese del più bello stampo. I Borel possedevano un negozio di vestiti alla moda nel centro luccicante di Torino, piazza San Carlo, il padre era stato tra i ragazzi che avevano fondato la Juventus in una panca rugosa di corso Re Umberto, uscendo la maggior parte dal Liceo Massimo d’Azeglio. Che questa storia sia poi vera al mille per mille non è garantito. In effetti, la racconta alla sua maniera flautata il figlio.
QUEL CARTELLINO VERDE
Raccontava Borel riguardo ai suoi inizi: «Nel 1928 – quando io che sono nato a Nizza Marittima avevo 14 anni – nascevano i Balon Boys e siccome nella Juve non c’erano squadre ragazzi per poter partecipare al campionato ragazzi fu giocoforza che firmassi contemporaneamente sia il cartellino dell’Ulc, Unione Liberi Calciatori, che il cartellino verde della Juventus. Però i colori miei, che avevo nel sangue, come mio padre, come mio fratello, erano quelli bianconeri».
Che Borel II sia juventino autentico tutti sono disposti a testimoniarlo, perfino Boniperti. Rimane però il fatto che la storia è ben diversa da come la racconta lui. «Farfallino» si era di fatto scritto solo ai Boys e fu il padre, quando lo seppe, a trascinarlo di forza alla Juve e fargli prendere quel cartellino verde. Nel 1928 la Juve si assestava ormai sui piani più alti. Prendeva il volo con Edoardo Agnelli la squadra che li avrebbe stritolati tutti, i miti infangati della provincia e i giovani astri di Bologna o Milano nonché il Toro, squadra plebea per eccellenza. E la Juve? Squadra dei padroni, salvo testimoniare la sua identità nei fatti di un gioco coriaceo, informato a grosso taglio di individui ed a grande malizia professionale. La Juve del quinquennio in campo non si spremeva. Aveva il genio difensivo di Rosetta che non colpì mai un pallone di testa, aveva la saldezza atletica del «centromediano che cammina», quel tirchiaccio di Luisito Monti; aveva il podismo di Varglien I e Bertolini; la fantasia di Sernagiotto e Orsi; ed ebbe, a cominciare dal 1932, il talento squisito, forse irripetibile, di Farfallino Borel.
IL TAVOLO DA POKER
«Io fui il sostituto di Vecchina, ma anche di Rosa e di Imberti. Era il 1932. Si inaugurava il campo di La Spezia, Cesarini non c’era perché convocato in Nazionale, altri bianconeri erano pure azzurri, andammo con una formazione mista. Nel primo tempo non ci impegnammo e loro segnarono un gol. Carcano era una furia e ci insultò tutti, dicendo che dovevamo vergognarci. Anche Mazzonis, che è stato il primo vero grande dirigente proiettato sul futuro del calcio, era furioso. Allora ci toccò fare il nostro dovere nel secondo tempo e segnammo quattro gol, io giocavo mezzala, feci segnare tre reti con fughe di cinquanta metri ed una la segnai io stesso. Carcano alla fine mi disse: tu sei centravanti, un grande centravanti. E a Cannes, la partita successiva, infatti, fui schierato col nove e vincemmo sette a zero. Tra parentesi a Cannes aveva giocato anche mio padre, uno dei ragazzi del D’Azeglio. Mazzonis poi, il barone. Lui è andato a cercare Monti, Orsi e Cesarini. Soltanto Novo è stato grande come Mazzonis. Edoardo gli lasciava carta bianca su tutto. Cesarini era un pazzoide ma lui riusciva a domarlo. Orsi prendeva centomila mensili e Cesarini ne voleva altrettante. Ma il barone non gli scucì mai più di trentasei mila annue. E diceva, lisciandosi il baffo con pollice ed indice della mano destra, che erano anche troppi, perché avrebbe sprecato anche quelli. Ed aveva ragione. Quei dirigenti erano in gamba. Mazzonis era uno degli uomini più ricchi di Torino, la sua famiglia era seconda per ricchezza solo a quella degli Agnelli e Gualino, ma non era un nobile come voleva farsi credere, un suo cugino era barone di Palafrera. Lui ci teneva che i giocatori lo chiamassero barone… Edoardo Agnelli non era proprio il padrone della Juve come si crede. Nel 1928 il deficit della società era pagato un cinquanta per cento da Edoardo e l’altro cinquanta per cento da Mazzonis. Nel 1931, il deficit venne spartito in sedici, tre sedicesimi ad Agnelli, tre a Mazzonis, due a Remmert, due al tavolo del poker del Circolo Juventus di via Bogino uno a Monateri, uno a Valerio, a Gaspare Bona, uno tra Tapparone, Fubini, Nizza e il conte Ghigo… Così era finanziata la grande Juve che vinceva tutto…».
IL GOL DI BUDAPEST
Combi; Rosetta, Caligaris, Varglien, Monti, Bertolini, Sernagiotto, Cesarini, Borel II, Ferrari, Orsi. Ecco la Juve edizione ’33-34, Borel II capocannoniere con 32 gol in 34 partite. Un formidabile globetrotter del ruolo, un centravanti dal sinuoso movimento verticale e dal tocco smorzato e secco negli angolini più impolverati della porta. Un ballerino per classe naturale, movenze fisiche, scatto, allungo, fondamentali. Rendeva tutto semplice, non si perdeva in ghirigori, il suo dribbling essenziale a seguire, i suoi colpi di esterno, sinistro e destro, proverbiali, di testa era formidabile. Diventò la bestia nera del Torino nel derby, segnava sempre lui. Il soprannome «Farfallino» gli venne dato da Carlo Bergoglio Carlin, realmente Borel II sembrava sorvolare la mischia, volare sul fango. Schiavio, Meazza, Vojak, Busoni, Piola… Poi Gabetto.
I centravanti rapsodici sono stati tanti. Ma nessuno con lo stile di «Farfallino», che nell’ottobre 1933 fu chiamato da Pozzo a sostituire l’infortunato Angiolino Schiavio per il match di Budapest contro la temibilissima Ungheria: Combi, Rosetta, Caligaris; Pizziolo, Monti Bertolini; Guarisi, Cesarini, Borel II, Ferrari, Orsi. Stadio del Ferencvaros, arbitro il celebre fischietto inglese Rous, futuro Presidente della FIFA. Risultato? Per la prima volta violata dai nostri azzurri la terra magiara, con un gol proprio del «Farfallino», che però non doveva mai gloriarsene; in Nazionale avrebbe giocato solo tre volte…
IL DECLINO
Come i tempi esigevano, di retorica e di sviolinature sentimentali, quella Juve è passata solo come esempio di mitezza e di grandezza. Borel diceva che «Monti faceva sparire tutto, prendeva tutto quello che gli capitava a tiro, quando spariva qualcosa si andava subito da lui. Una volta, nel ’34, per una partita a Parigi, si giocava contro il Real Stade Racing, entriamo in un grande albergo, c’era un bel veliero sulla mensola, il giorno dopo non c’era più: “fuori la barca”, scrisse l’albergatore a Mazzonis» “o ci rimandate la barca o ci spedite 4000 franchi o vi denunciamo”. Monti restituì la barca e il caso fu risolto». Quella Juve fu la più grande di tutti ma i calciatori ieri più di oggi non erano stinchi di santo. Specie gli oriundi. E c’erano anche i personaggi torbidi.
Ricorda ancora Borel: «Il conte Rolando Ricci, figlio del generale, si occupava del vivaio. Scoprì lui Rava, Gabetto, Genta, Gentin, Bracco eccetera, trentasei stelle. Un giorno mi fece la lista. Bene, fu ucciso nel ’44 da un losco figuro».
Infortunatosi al ginocchio destro, Borel ne fu danneggiato. Perse molte occasioni, molto tempo prezioso. Così nella Juve finì col giocare 262 partite con 132 gol. Tranquillamente, senza le traversie fisiche, ne avrebbe potuto giocare più di quattrocento, contrastando Piola e Boniperti nei fatti del gioco e dei gol. 32 gol nel campionato 33-34, 13 nel 34-35, figurava solo 8 volte nel 35-36 con 4 gol, riprendeva la postazione nell’autunno ’36 andando a segnare in 26 partite 16 gol. Già la sua stella si eclissava nella Juve che non era più la Juve, non vinceva più. L’Ambrosiana e il Bologna erano più grandi. Ma chi è stato più grande nel ruolo di centravanti di «Farfallino» Borel quando ha avuto modo di dimostrarlo?