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“FLEE” Di Cristiano Dalianera

Film animato del 2021 per la regia di Jonas Poher Rasmussen. Recensione SENZA SPOILER!

Amin ha quattro anni quando il padre viene forzatamente reclutato per la guerra in Afghanistan. E’ il 1984 ed il mondo non sarà più lo stesso. Mujaheddin e Unione Sovietica mandano in frantumi un paese e la vita del giovane uomo; da quel momento sarà una fuga perenne che segnerà la sua identità, fino alla nuova vita in Danimarca.
Dopo più di vent’anni deciderà di raccontare tutto ad una telecamera per testimoniare la sua odissea, nel momento esatto in cui inizia il film.

Tre Nominations agli Oscar (Miglior Film Animato, Miglior Film Straniero, Miglior Documentario) sono un buon punto per iniziare la disamina sul lavoro di Jonas Phoer Rasmussen.
La storia, qui raccontata come una graphic novel, è un personale e toccante affresco sull’identità. Un viaggio forzato dall’infanzia all’età adulta, attraversando la storia e la guerra (di cui tutti abbiamo un’idea) ma anche vicende personali tormentate e particolari in cui la maggior parte degli esseri umani non farà mai i conti nella propria esistenza.
Una vita da profugo, derubato della propria casa, finisce col diventare l’epopea di un apolide: un uomo in fuga si aspetta sempre qualcosa, sempre guardingo, sempre teso, condannato a non sentirsi mai al sicuro, con nessuno, in nessun luogo.
Amin è un sopravvissuto. Alla guerra e alla fuga da essa. E’ sopravvissuto ai corrotti poliziotti moscoviti, ai trafficanti di essere umani. E’ sopravvissuto alla diaspora della sua famiglia.
Ed è omosessuale, cosa per cui, nel suo paese, nel suo Afghanistan, non esiste nemmeno una parola per definirsi. Conosce solo il concetto di disonore che si legherebbe indissolubilmente alla sua famiglia. Nemmeno ancora cosciente di se, sa di essere innamorato di Jean Claude Van Damme e sa di non poterlo dire. Il viaggio del sopravvissuto Amin inizia dal poster sulla parete della sua cameretta a Kabul che gli fa sussultare il cuore.

La storia è raccontata attraverso i disegni animati, in un modo un po’ diverso dal solito, sono i disegni ad accompagnare la storia e non viceversa: una lunga narrazione in presa diretta che salta dalla prima alla terza persona, intervallata da filmati reali in 8 mm dell’Afghanistan di allora, con i suoi colori, il suo traffico, la sua gente.
Il racconto personale si fonde e moltiplica l’impatto del lavoro documentaristico, narra anche le ceneri di una decadente Unione Sovietica, alle soglie del 1989, e la conseguente disgregazione del blocco orientale. Narra di un paese che oggi, come allora, è in mano ad un potere accentratore e medievale. Il film accusa, anche se non con la veemenza del partigiano, l’ingerenza “a stelle e strisce” ed è parecchio più severo con la Russia comunista. E’ il crudo ritratto di una Mosca opprimente, stato di polizia e funzionari corrotti, dove si vive con meno dell’essenziale, libertà compresa.
Alcuni filmati in 8 millimetri, si diceva, spezzano e nel contempo integrano la narrazione, facendo notare allo spettatore l’assoluta sovrapposizione del racconto alla realtà, non tralasciando nemmeno facezie e dettagli, che della storia sono le pietre angolari.

Il cambio di stile è un altro efficace registro: i ricordi, quelli belli, sono luminosi e dettagliati, cartoline serene e colorate. I ricordi tristi, invece, sono galoppate in un tagliente bianco e nero con suoni cupi e rumori sordi, martellanti e ripetitivi: forse la miglior rappresentazione animata di quello che è un trauma. Il regista coglie questa sfumatura e la sviluppa in maniera potente. Se si dovesse scegliere cosa far restare di questa pellicola queste sequenze sarebbero le prime candidate.
Il merito di una resa così efficace passa anche dal montaggio: Janus Billeskov Jansen fa un lavoro magnifico nel raccordare disegni, riprese e suono. Se vi trovaste per un attimo spaesati non riuscendo a ricordare quali scene sono reali e quali no, beh, la magia del montaggio è riuscita.

Tutto questo lavoro di drammatizzazione ha il demerito di stridere un po’ con la linea narrativa documentaristica. Il film, ricordiamolo, è anche un documentario ma su questa parte, laddove una buona cronaca dovrebbe essere fredda e distaccata, ci sono sovente delle prese di posizione che fanno a pugni con la sospensione dell’incredulità.
Forse il passo falso di questo film sta proprio in questo: la possibilità di voler dire tutto ma con la volontà pesantemente imbrigliata, cercando costantemente di mantenere l’impossibile equidistanza tra “buoni e cattivi”.
Appesantita da questo barcamenarsi la storia tende a rallentare in alcuni punti e la tensione ne risente.
La storia personale di Amin, quella intima e potente, soffre troppo il peso della normalizzazione. C’è un momento, nel film, in cui si fa riferimento a ciò che un teenager vorrebbe e dovrebbe fare: quella che suona quasi una promessa in realtà non sviluppa nessuna sottotrama.
Tuttavia è evidente che la carne al fuoco e troppa da qualche parte bisogna andare a parare. Un continuo di picchi altissimi e baratri profondi che non aiutano la leggibilità dell’opera.
Chiarissime le idee sul messaggio da trasmettere, restano confuse quelle sul come trasmetterle. VOTO: Tre ciaKKini e mezzo 🎬🎬🎬 1/2, per quello che rimane un piccolo gioiello, nonostante tutto, per intensità e realizzazione, capace di raccontare i dettagli dimenticati dalla storia. Non solo un dramma personale ma anche una moderna e tragica fiaba sul diventare adulti.

Cristiano Dalianera 02/04/2022

Vuoi ascoltare la recensione in podacast? la trovi qui:

https://youtu.be/ck1YGg7z7fA

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