Sotto la guida di Capello e Castagner, Scirea è utilizzato in prevalenza all’attacco, qualche volta ala e qualche volta interno. Come interno gioca due stagioni nella Primavera della squadra orobica. Benino, ma senza squilli di fantasia: «Capello mi ha salvato! Ero, infatti, sul punto di lasciare il calcio. Credevo di aver sbagliato mestiere; mi sembrava di essere un fallito».
Capello, infatti, un bel giorno decide di impiegarlo nel ruolo di libero: «La maglia che abitualmente indossavo era quella di mezzala, e a battitore libero giocava Belotti, il mio amico Vittorio. Poi Belotti si ruppe una gamba (stavamo giocando a Melegnano) e Capello, l’allenatore, decise su due piedi di sostituirlo proprio con me, una mezzala. Ricordo tutto di quegli anni. E con un certo piacere rammento il successo ottenuto nel campionato Primavera nella doppia finale con la Roma, 2–2 fuori e 2–1 in casa. Il nostro allenatore era Castagner, allora giovanissimo. Uno che di pallone ne capiva parecchio, te lo assicuro».
Per un infortunio capitato a Savoia, Gaetano si vede schiudere le porte della prima squadra. È la stagione 1972–73, Scirea disputerà venti partite di fila in serie A, guadagnandosi il bastone da titolare per la successiva stagione nei cadetti. Corsini è stato il tecnico che lo ha lanciato nel massimo campionato. Heriberto Herrera quello che lo ha affinato, dandogli le attuali dimensioni di libero di gran lusso.
Gaetano diventa ben presto un uomo mercato e, tra i tanti osservatori che lo spiano, c’è Romolo Bizzotto; il suggerimento di tenere Scirea sotto osservazione pare sia partito dall’ex bianconero Bonci. Fatto sta che qualcuno lo dice a Gaetano ma lui, timido e semplice, pur guardando alla Juventus con occhio languido, non riesce a crederci. «Il campionato era finito ed io ero a casa, senza particolari preoccupazioni. A un certo punto mi venne a trovare Brolis, un dirigente, e senza molti preamboli mi comunicò che la Juventus mi aveva acquistato, dovevo andare a Torino alle visite mediche. Impazzivo dalla felicità. E quella notte, credimi, non ce la feci proprio a prendere sonno. Sembrerà forse una scontatezza, ma è la pura verità. Credo che ogni calciatore, forse anche ogni ragazzino, abbia sognato una volta nella vita di arrivare a far parte della Juventus. Io ci ero arrivato davvero».
Lui pensa a uno scherzo ma, arrivato a casa, trova l’intera famiglia in agitazione. Fu una festa e ci scappò anche il brindisi, confessa lui ancora emozionato al ricordo. Poi le visite, la conferma, l’appuntamento al ritiro del 29 luglio: «Mi ricordo che non volevo scendere dalla macchina sulla quale mio fratello mi aveva accompagnato». E il fratello dovette quasi tirarlo giù di peso.
A Villar Perosa è messo in camera nientemeno che con Bettega. «Fui fortunato. Giunsi alla Juve proprio in coincidenza con l’abbandono di un campione del calibro di Salvadore ed evidentemente dovevo già godere della stima dei responsabili, visto che mi si diede senza problemi la maglia numero sei». L’ingresso in squadra, dopo la preparazione lo ricorda con sofferenza: «La prima partita in Coppa Uefa, mi faccio male alla caviglia. Così, appena cominciato, sono stato costretto a fermarmi per due partite in campionato. Provavo tanta gioia ma spesso scendevo in campo con le gambe che tremavano, mi ha aiutato la squadra vincendo lo scudetto, il mio inserimento non poteva coincidere con miglior risultato».
Pagato quello scotto, Scirea gioca ben ottantanove partite consecutive, partecipando alle emozioni e alle gioie degli scudetti più brillanti, quello dei cinquantuno punti e alla conquista della Coppa Uefa. E, a ogni partita, l’impegno per essere sempre all’altezza della situazione: «Giocare libero è un impegno continuo. Devi controllare tutti e nessuno. Devi possedere un intuito eccezionale. Capire quando il terzino parte avanti e prendere subito in consegna l’attaccante che resta incustodito, tenendo ben presente lo spazio dal quale possono venirti le sorprese del contropiede. Poi, quando intervieni, devi cercare non solo di liberare l’area, ma appoggiare il gioco in maniera da far ripartire i tuoi; semplice da dire, ma provate a farlo, quando il gioco è veloce e tutti sono in condizione di metterti in difficoltà».
Per lui, nulla sembra essere eccezionale, poiché ha imparato a misurare con il metro del buonsenso ogni fatto della vita, da quella intima di casa, a quella professionale di giocatore di calcio: «Così riesco a far durare di più il piacere delle cose buone e ben fatte e tengo sempre davanti alla mente che, se rifletto un pochino di più sugli errori, posso evitare di ricadervi. Sono stato baciato in fronte dalla fortuna. La vita che facciamo è bellissima, piena di agi e di soddisfazioni sia economiche che personali. Quando qualcuno mi domanda che cosa può perdere, un ragazzo, decidendo di fare il calciatore, non so che dire, Mi sembrerebbe di prendere in giro me stesso e tutti i ragazzi che, per ottenere una minima parte di quanto otteniamo noi, sono costretti a fare lavori più faticosi e umili».
Qualcuno lo rimprovera dicendo che sia “troppo buono”, e quindi incapace di sfoderare, una volta sul campo, quella grinta e quella cattiveria che, a certi livelli, sono ritenute doti indispensabili. «Non è vero niente. E con questo non voglio dire, sia chiaro, di essere un tipo “senza cuore”. Ma in campo so farmi rispettare e, se non fosse così, non avrei certamente potuto arrivare ai livelli cui, da tempo, mi sto esprimendo. D’altronde, la decisione e un pizzico di cattiveria sono ingredienti indispensabili di ogni contesa, un buon professionista non può rinunciarvi. E poi non è detto che, una volta in campo, un atleta debba necessariamente portarsi dietro tutto di se stesso. Scirea giocatore non è l’immagine di Scirea uomo».
Quattordici anni di Juventus. Una scelta di vita che lui commenta così: «Certo che avrei potuto anch’io, con l’arrivo dello svincolo, spuntare contratti faraonici, ma di squadre come questa ce n’è una sola. Ed io preferisco concludere la mia carriera alla Juventus. Senza fretta, però, ho il conforto dell’esempio di Zoff, un uomo che mi ha insegnato a non guardare indietro».
Ha vinto tutto: sette scudetti, due Coppe Italia, Supercoppa, Coppa Intercontinentale, Coppa dei Campioni, Coppa Uefa e Coppa delle Coppe, senza dimenticare il Mundial spagnolo. Ha sempre giurato di divertirsi troppo in campo, ogni partita è un avvenimento che lo affascina, aver tagliato tutti i traguardi possibili non l’ha mai accontentato.
Il 1976–77 è forse la stagione più esaltante della Juventus ultimo decennio: quella dello scudetto dei cinquantuno punti e del primo grande successo europeo, la Coppa Uefa: «Era la Juventus che dava sette o otto giocatori alla Nazionale. Una Juventus splendida, costruita da Boniperti pezzo su pezzo, da grande intenditore», ricorda. La Juventus che ha consegnato a Bearzot la Nazionale d’Argentina. «Per due volte ha capito che nel calcio non si finisce mai di imparare. È stato quando, dopo aver vinto lo scudetto con Parola, l’anno successivo, a sette giornate dalla fine, con cinque punti di vantaggio rispetto al Torino la squadra perse tre partite di seguito e consegnò il titolo ai cugini granata. E, più grande di tutte, la delusione di Atene, la Juventus più bella, quella che era giunta in finale dominando squadroni come Widzew Łódź, Aston Villa e Standard Liegi».
La Juventus gli ha dato molto, gli ha spalancato le porte della Nazionale: «Ma è facile arrivare a certi livelli, il difficile è restarci», raccomanda sempre Scirea. E non dimenticherà mai che insieme a lui, in Nazionale, cominciò Rocca: «Ecco, lui è il caso sfortunato, quello che dimostra come sia tutto così aleatorio. In quel momento era una pedina inamovibile, un esempio per me e tanti altri che si affacciavano alla maglia azzurra».
Gaetano Scirea è anche un buon marito, un buon padre, ama il cinema e pratica il tennis, sport preferito dell’estate. La famiglia è la sua oasi di pace, il rifugio di chi vive nel frastuono del mondo dello spettacolo. Ogni partita ha una sua fisionomia per cui, al termine di ogni incontro, Scirea si sente in dovere di analizzare, per conto suo, ogni azione giocata: «E mi critico e mia moglie mi critica ancora di più. Ma, devo dire, che i suoi interventi mi sono di aiuto, perché parla con serenità e la serenità ritrovata in casa, è il miglior sistema per distendersi. Ho sposato una juventina che mi ha portato una famiglia deliziosa. Ho imparato tante belle cose del Vecchio Piemonte, compreso il culto del vino buono, che ho imparato a fare da mio suocero nel Monferrato. Quando posso aiuto in cantina. Ma mi hanno detto che sono più bravo a fare il calciatore».
«Mio marito – racconta Mariella – ha una qualità-difetto grossa come una casa, la modestia. Lui dice che, a volte, parlo come un direttore sportivo ma, secondo me, dovrebbe farsi valere di più. È testardo, poi crede di essere preciso, mentre non lo è per niente. Quante volte Gai, dopo l’allenamento, mi piombava a casa all’ora di pranzo con quattro sconosciuti. Diceva: “Mariella, questi signori hanno fatto centinaia di chilometri per venire a vedere la Juve ed ho pensato che dovevano pur mangiare qualcosa”. Ecco, questo era Gaetano Scirea fuori dal campo». Scirea rimane soprattutto un calciatore onesto e felice: «Perché ho amato questo sport fin da piccolo e sono riuscito a fare questo mestiere».
Il destino lo ha portato via il 3 settembre 1989, in una strada polacca; nulla è più atroce che morire giovani. Per Mariella e Riccardo, una scatola piena di ricordi e l’esempio di un uomo e di un padre che non potrà mai essere dimenticato.
ANGELO CAROLI
Addio, campione! Gaetano Scirea ci lascia in un mare di stupefatto dolore. Non è tornato dal suo ultimo viaggio di lavoro, una fuggitiva comparsa in Polonia per osservare i prossimi avversari della sua Juventus in Uefa. Un attimo sconvolgente e tragico, un’auto che prende fuoco dopo l’urto con un furgoncino e Gaetano si accomiata per sempre dalla moglie Mariella e dal figlio Riccardo abbandonandoli nell’incredula costernazione. E attorno ai parenti si stringono commossi e affranti il mondo dello sport e la Juventus, la seconda famiglia cui si era unito, dal 1974, con una dedizione totale.
Nel momento di piangere e celebrare il campione e l’uomo non è possibile trattenere le lacrime. Non c’entra soltanto la professione, il dovere in questo frangente ci spinge a ricordare innanzitutto l’amico. Era il ragazzo della porta accanto, al quale ci si sente istintivamente legati e al quale si da immediata fiducia, un uomo buono e accomodante, dolce e docile, onesto e umile fino al paradosso, nonostante la professione gli avesse costruito attorno una celebrità sconfinata. Non esiste un personaggio amato come lui, al punto che perfino i più accesi rivali municipali oggi lo ricordano con affettuoso rispetto.
Conosciamo Gaetano Scirea nella primavera del 1974. Militava nell’Atalanta. Era stato un incontro del dopopartita, uno scambio di poche parole, si leggeva una misura lucida in ogni sua frase. E Gaetano era come trafitto da indefinibile mestizia, poiché anche davanti all’elogio iperbolico sorrideva appena, con un garbo che aveva il sapore irrecuperabile di uno stile d’altri tempi. Gli dicemmo che aveva disputato un match stupendo. Abbassò gli occhi, fissando un punto imprecisato del pavimento e arrossì, come fanno i bambini che vivono negli incantesimi.
Come e facile cadere nella retorica quando si parla di Scirea! La verità è che con lui se n’è andato realmente il migliore, nel senso di sintesi di uomo-atleta, Aveva appeso le scarpe al famoso chiodo da un anno ed era rimasto nel cuore dei tifosi, dei critici, degli avversari. La sua sembrava un’eterna sfida al codice di comportamento. Ed era un esempio per i giovani, i campioni del futuro, i quali non soltanto ne imitavano le delizie stilistiche, ma ne ammiravano ogni tipo di approccio con la professione. Ed è anche per tale motivo che Gaetano riusciva a incutere rispetto e ammirazione in tutti.
Un episodio ci è caro ricordare e riguarda i Mondiali svoltisi in Argentina, nel 1978. Mar del Plata, la sede dei primi due turni eliminatori dell’Italia, era fustigata da raffiche di vento gelide, nonostante l’inverno australe non fosse particolarmente rigido, L’Italia aveva appena battuto la Francia e l’Ungheria, in rapida successione. Gli argentini, che in quanto al calcio hanno palato fino, gli avevano riconosciuto ampi meriti tecnici. Eravamo con Gaetano, seduti al bar dell’hotel che ospitava la comitiva azzurra, nell’ora dell’aperitivo. Gli dicemmo che era un libero che giocava con la marsina e gli chiedemmo se era d’accordo sul fatto che fosse il più forte del mondo nel ruolo. Abbassò gli occhi. Come quella volta a Bergamo, e ammise: «È vero, hai ragione».
Restammo stupefatti, ci saremmo aspettati un atteggiamento diverso, uno schermirsi discreto, come la sua natura gli aveva sempre consigliato. Poi capimmo che Gaetano, serio e onesto fino all’esasperazione, non poteva mentire a se stesso. Si era limitato a prendere atto della verità.
Una volta sola lo vedemmo irritato, nella stagione 1986-87. La Juventus giocava a Pisa e alla fine del primo tempo pareggiava dopo aver fallito due clamorose opportunità. Gaetano, seduto in tribuna a due passi da noi, si lasciò scappare, sollevando le braccia al cielo, questa frase: «Non si possono sbagliare goal così facili».
Fu questione di un attimo, poi riacquistò lo stile del gentleman e aggiunse: «Comunque, vinceremo». La sua previsione, dettata da logica e da amore, si rivelò indovinata.
I successi, tutto ciò che calcisticamente era possibile conquistare, lo incoronano atleta inimitabile. Il comportamento, sul campo e nella vita privata, lo eleggono a uomo esemplare. E oggi, in silenzio, non ci resta che piangerlo con l’animo gonfio di un dolore senza limite.
“LA STAMPA”, 2 SETTEMBRE 2009
«Era stata una domenica di fine estate al mare, di quelle che sfrutti al massimo perché sono le ultime e poi arriva la scuola. I bagni, la pizzetta, il gelato, il pallone. Soprattutto il pallone. Ero contento. Quando alla sera mi sedetti con i miei nonni sul divano per vedere alla “Domenica Sportiva” come aveva giocato la Juve, non immaginavo che la mia infanzia era già finita da qualche ora».
Riccardo Scirea è un uomo di trentadue anni. Ne aveva dodici quando conobbe nella maniera più crudele la notizia che gli cambiava la vita: aspetti di guardare i goal del campionato e ti dicono che è morto tuo padre, senza la possibilità che una persona cara ti prepari al colpo. «Gaetano Scirea è morto in un incidente d’auto in Polonia. L’ho saputo così, dalla televisione. Poi si sforzarono tutti di distrarmi perché non pensassi al dramma ma oramai avevo realizzato che non avrei più visto mio padre e già mi mancava».
Riccardo, l’unico figlio di Gaetano, è rimasto sempre nell’ombra di quella tragedia. Mariella, sua madre, reagì mettendosi sulla scena. La politica, il Parlamento europeo, un po’ di televisione, quel cognome, Scirea, che restava presente nella vita degli italiani che intanto gli dedicavano premi, tornei, impianti sportivi e, a Torino, una curva dello stadio e persino una via nel quartiere di Mirafiori.
Lui, Riccardo, continuò discretamente a giocare a pallone nelle giovanili bianconere («un terzino-mediano che non aveva tra le qualità quella di sfondare a tutti i costi»), si laureò, da qualche anno è nello staff tecnico della Juventus: è l’uomo che analizza statisticamente il match, inquadra con i numeri quanti passaggi, tiri, errori, palloni recuperati o persi si sono visti nella partita e ne traccia il bilancio. «Me lo chiese Ranieri, adesso lo faccio per Ferrara. Ma quest’anno c’è anche la novità che alleno una squadra di Pulcini e mi piace moltissimo».
I bambinetti non lo guardano come il figlio del grande Scirea, di cui non sanno nulla. Però lo sanno i genitori ed è come riprendere il filo interrotto venti anni prima quando, all’uscita dall’istituto San Giuseppe, i compagni di scuola e i loro parenti ne approfittavano se Gaetano si presentava all’uscita per accompagnare il figlio a casa. «Sentivo che mio padre era speciale e ne ero orgoglioso. Solo una volta provai gelosia e fastidio per la sua popolarità. Fu al ritorno dai Mondiali in Spagna. Andammo al mare in Liguria, a Ceriale, e da tutta la spiaggia venivano ai nostri bagni per un autografo o una fotografia: lui era gentile, non diceva mai di no e non aveva più il tempo per giocare con me che l’avevo aspettato tanto. Passò quattro giorni seduto nella cabina perché non voleva che i vicini di ombrellone fossero disturbati da quell’andirivieni, poi decise che era abbastanza: lasciammo il mare e andammo in campagna».
Il ritratto che ne fa Riccardo è di un padre famoso e tenero. «Conservo le cartoline che mi spediva dalle trasferte più lunghe. Ne ho una da Barcellona, del 1982, una dalla tournèe a New York, l’orologio che mi portò da Tokyo quando vinse l’Intercontinentale e me lo invidiavano tutti perché, allora, chi lo aveva in Italia un orologio con tutte quelle funzioni? Ho la maglia di Vialli alla Sampdoria, l’unica che gli abbia mai chiesto, più quelle che portava a casa scambiandole con gli avversari. Ma il ricordo più vivo è l’immagine di quando mi portava all’allenamento e alla fine rimanevamo noi due a giocare per un quarto d’ora al Combi».
Visto con gli occhi del bambino, Gaetano era un gigante. «Ho sentito parlare molto delle qualità umane di mio padre e sicuramente era un personaggio lontano dallo stereotipo del calciatore. Ma quando lo vedo nei filmati riscopro che era davvero un campione e un leader. Il senso della posizione e il tempismo erano le sue armi per chiudere i corridoi in difesa ma le sfruttava anche per segnare due o tre goal a campionato. Un anno ne fece cinque e non erano i goal del difensore che va a saltare sui calci piazzati, lui li costruiva con la manovra. Oggi mio padre farebbe il centrocampista e non il libero, probabilmente sarebbe il regista arretrato in copertura, come Felipe Melo in questa Juve. Cosa non gli piacerebbe del calcio attuale? Si sarebbe adattato a tutto con il buon senso: lo avrebbero infastidito solo le troppe chiacchiere, le mille interviste, magari l’ingerenza dei procuratori e dei manager. Ma sono convinto che, da tecnico, avrebbe creato qualcosa di nuovo perché aveva le idee. Non ebbe il tempo di esporle. L’estate prima che morisse avrebbe potuto allenare la Reggina, preferì restare alla Juve perché c’era Zoff. La cosa strana è che quando aveva smesso di giocare, un anno prima, ero stato contento perché pensavo che finalmente lo avrei avuto per me anche nei weekend che non avevamo mai fatto insieme. Invece scoprii che da vice allenatore viaggiava più di prima e lo vedevo ancora meno. Certo non pensavo che, per quel lavoro, non l’avrei più rivisto».
“REPUBBLICA”, PRIMO SETTEMBRE 2009
Zoff, sono già vent’anni: «Tornavamo da Verona in pullman, la Juve aveva vinto 4-1, il casellante disse che era successo qualcosa a Scirea, io risposi è impossibile, a quest’ora sarà già a casa che dorme».
Invece era morto su una strada polacca: «Allenavo la Juve, Gaetano era il mio vice. Era andato a vedere i nostri avversari di Coppa, lui non era convinto che fosse necessario, nemmeno io lo ero, ma Boniperti aveva insistito ed era giusto così. Il destino è invisibile».
Chi era Gaetano Scirea? Cos’era? «Un uomo. Era il suo stile. Non la forma, lo stile. Era serenità, chiarezza e pulizia. Era convincente anche quando si arrabbiava così di rado, non perdeva mai il controllo. Una persona sempre misurata e tranquilla. Diceva solo cose autentiche, ponderate».
Ricorda quando lo conobbe? «Arrivava dall’Atalanta, un ragazzone taciturno, buonissimo. All’inizio mi sembrava troppo perfetto per essere vero: a volte i timidi appaiono meglio di quello che sono, vale anche per me. Invece era così sincero e puro, senza sovrastrutture. Aveva il pudore delle parole, così raro sempre e di più adesso, in mezzo a questo boato».
In campo, inarrivabile. «Perché era sempre lui, era la sua continuazione. Dicono che in partita ti trasformi: fesserie, in partita sei tu e basta. E conta l’istinto, lì non esiste il freno dell’intelligenza, viene fuori il profondo. E il profondo di Scirea era Scirea».
Mai un’espulsione, eppure giocava in difesa. «Gli bastavano la classe e la pulizia del gioco. Mai visto uno così elegante, con la testa così alta. E la purezza del tocco era purezza morale. Questi sono uomini importanti, che magari non segnano un’epoca perché non gridano. Ma quanta ricchezza».
Eravate sempre insieme. chissà che silenzi. «Invece parlavamo tanto, anche se per capirci non c’era bisogno di dire cose. Ci assomigliavamo, però lui era incomparabilmente migliore di me: io non sono così buono, né accomodante. Dividevamo la stanza d’albergo nella Juve e in Nazionale, leggevamo, giocavamo a carte, robe semplici. Tra noi c’era una goliardia da ragazzini. Gaetano non era un musone, amava gli scherzi, ci stava, anche se era così delicato».
Come visse il tumultuoso Mundial 1982? «La nostra camera la chiamavano la Svizzera, era stato Tardelli a inventare il nome perché cercava rifugio da noi nelle sue notti insonni».
Gaetano voleva fare l’allenatore: ci sarebbe riuscito? «Sì, perché era intelligente e convincente. In campo, un leader senza bisogno di urlare e sapeva farsi seguire. Aveva carattere, si era diplomato alle magistrali giocando e studiando anche di notte. Al calcio italiano è molto mancato uno come lui: forse, per carattere non avrebbe avuto troppe prime pagine ma non sarebbe cambiato, non l’avrebbero mai cambiato. Neppure in quest’ambiente, dove fa notizia solo il rumore».
Cosa accadde, dopo la vittoria di Madrid? «Ero rimasto allo stadio più degli altri per le interviste e tornai in albergo non con le guardie del corpo, come succede oggi, ma sul furgoncino del magazziniere. Gaetano mi aspettava. Mangiammo un boccone, bevemmo un bicchiere, ci sembrava sciocco festeggiare in modo clamoroso: mica si poteva andare a ballare, sarebbe stato come sporcare il momento. Tornammo in camera e ci sdraiammo sul letto, sfiniti da troppa felicità. Però la degustammo fino all’ultima goccia, niente come lo sport sa dare gioie pazzesche che durano un attimo, e bisogna farlo durare nel cuore. Eravamo estasiati da quella gioia, inebetiti».
Cosa ricorda della sera in cui morì? «Rientrando da Verona, eravamo andati a cena dalle parti di Ponte sull’Oglio. I cellulari non esistevano. Arrivati a Torino, il casellante ci disse quella cosa, non volevo crederci. Il pullman raggiunse lo stadio, dove avevamo lasciato le auto. Era pieno di giornalisti. Diedi un calcio fortissimo alla fiancata».
Dino Zoff, lei pensa spesso al suo amico? «Gaetano torna sempre. Lo penso a ogni esagerazione di qualcuno, a ogni urlo senza senso. L’esasperazione dei toni mi fa sentire ancora più profondamente il vuoto della perdita. Gaetano mi manca nel caos delle parole inutili, dei valori assurdi, delle menate, in questo frastuono di cose vecchie con il vestito nuovo, come canta Guccini. Mi manca tanto il suo silenzio».
VLADIMIRO CAMINITI
Tutto passa, è un’amara storia. Ci riguarda tutti, nessuno escluso. Cera una volta Scirea. Il paese nomato Italia viveva certi momentacci e tra le pochissime realtà consolatrici la Juventus di Gaetano Scirea, impegnata a vincere in tutto il mondo. Ma non soltanto lui. Anche di Zoff e Gentile. Furino e Tardelli, Boninsegna e Bettega, Cabrini e Causio. Ma questa volta vogliamo limitare l’occhiata, fermarci sul giocatore libero di ruolo, libero in tutto, Gaetano Scirea di Cernusco sul Naviglio. Gli statistici diranno nei secoli dei secoli: chi ha mai più vinto come e quanto Scirea? Vediamo intanto il come.
Mi rivedo all’Hindu Club, in Argentina. Soldatini tenebrosi marciavano, saracinesche venivano improvvisamente abbassate in pieno giorno in Avenida Centrale nella venturosa Buenos Aires, ma gli azzurri di Enzo Bearzot null’altro vedevano che una distesa sterminata di prati verdi. Un vecchione michelangiolesco veniva presentato da Gigetto Peronace agli azzurri. Qualcuno non ne aveva mai sentito parlare. Quell’uomo antico era Luisito Monti il centromediano che cammina.
E Scirea? In quell’incipiente estate, co si piena d’incubi per le dolorose vicende politiche legate al sequestro di Moro e al suo martirio, Gaetano Scirea, classe 1953, aveva venticinque anni appena compiuti, e appariva ancora timido, irresoluto, di poche parole, fin troppo rispettoso di uomini e cose. Era fatto cosi, inseparabile dall’infrangibile portierone di tutti i primati, Dino Zoff.
Fui io ad andare all’assedio della roccaforte, tirandomi dietro i colleghi reticenti. Il dubbio era semplice: ma questa signor Scirea parla? Fino a quel momento lo si era sentito mugugnare o al massimo lo si era visto sorridere. Il calciatore vero, tanto più lombardo, anche “furlan” per questo, ha sempre prediletto la linea dei fatti a quella delle parole.
Mi ricordo sì del primo Scirea, era timido perché era orgoglioso. Riteneva fosse perfettamente superfluo parlare e respingeva al mittente tutti i dubbi e perplessità che la stampa soprattutto milanese, già preferendogli almeno altri tre liberi, nutriva sul suo conto. Fu cosi che riuscii a farlo sfogare, Scirea finalmente parla: «Non sono debole nel gioco di testa, ho il mio gioco, dipendo come tutti anch’io dalla squadra».
Avvenne al Mundial di Argentina l’esplosione tecnica di Scirea libero. Nasceva il ruolo di libero, inventato da Scirea. Quante volte l’ho scritto, vogliamo ripeterlo?
Prima di lui il libero era mezzo ruolo, per tappabuchi predestinati, per campioni alla frutta, per assi acciaccati, per nulla tenenti della fantasia. Fecero eccezione di uomini grandi come Picchi che costruirono il ruolo su se stessi, sulle proprie ossa e sul proprio cuore. Ma oramai il libero doveva entrare stabilmente nel gioco, partecipare alla manovra, non limitarsi a rompere. E Scirea faceva molto di più. Avanzava, inserendosi in ogni reparto con naturalezza; a seconda della posizione che andava prendendo sul campo era “half” o interno o attaccante. E che splendidi goal andava a segnare!
La Nazionale finì quarta ma era nato un campione nuovo, era arrivato il più grande libero del mondo. Un altro come Franz Beckenbauer il superbo, Gaetano Scirea di Cernusco sul Naviglio. Ma non superbo, timido. Di una rara timidezza, come certi cieli della sua terra, uno che non la manda mai a dire, se la tiene dentro. Ha sposato una bella ragazza. Ha ideali semplici. È un arcade, è Gaetano Scirea.
Ora può andare a vincere tutto quello che c’e da vincere. La “Nazionalsentimental” di Bearzot vive i suoi anni fulgidi. Non si sa cosa aspetti all’angolo domani, non si può mai sapere. Consapevolmente e inconsapevolmente, Bearzot il “furlan” ha messo insieme un gruppo bellissimo. E sono anni guerreggianti nel calcio, in cui anche la Juve vince tutto quello che ancora manca al suo palmares, per i posteri, per se stessa; e Scirea va a dare ripetute prove di regia retrorsa, di goal di volo belli e puntuali.
Ha inventato il ruolo. La Juve di Zoff, di Cabrini e Gentile, di Tardelli e Furino, di Brady e poi di Platini, di Boninsegna e poi di Paolo Rossi, è la sua Juve, specialmente la sua Juve, di questo giocatore araldico che conosce i tesori del silenzio, che sa applicarsi nel lavoro e rifugge da ogni atteggiamento demagogico.
Oggi è facile dire che il giocatore è cresciuto e una volta era ignorante. Sara pur vero, ma oggi è spesso arrogante, la cultura non lo ha fatto crescere. Quando era primitivo era anche creativo. Io direi che uno come Scirea fa tabula rasa di tutti i pregiudizi sul calciatore. È un desso che si impegna a fondo nella vita quotidiana per essere la stessa persona che è in campo; quando non arriva su un pallone è perché proprio non ce l’ha fatta a raggiungerlo. Il miglior discorso tattico della Juve, come della Nazionale, nasce dal suo piazzamento e dalla sua imbeccata. In Espaňa un’edizione che si fa strategia, gioca alla grande in ogni zona di campo.
È un uomo aggiunto alla manovra che sa colpire al momento giusto. E gli anni passano. E qualche filino grigio compare nelle tempie del nostro uomo. Una volta a Cagliari lo vedo giocare male e lo scrivo. Allo Sporting, un giorno, me lo rimprovera.
Caro Scirea, hai dato al calcio il meglio di te stesso con esecuzioni esemplari di un gioco che apparteneva alle tue serene albe, ai tuoi sogni discreti.
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