Nasce a Cremona il 9 luglio 1964 e proprio nella squadra della sua città natale inizia la carriera, arrivando a disputare quattro campionati in prima squadra, contrassegnati da due promozioni: dalla C1 alla B nel 1980-81 e dalla B alla A nel 1983-84. La villa dei Vialli, a Cremona, tutti chiamano ancora Castello. Perché sono ricchi, i Vialli. Vecchia storia: «Quello è il figlio di un miliardario», dicevano.
Allora, Gianluca si infastidiva e la madre Maria Teresa smentiva: «Borghesi, ecco che cosa siamo. Diciamo che stiamo bene, non ci lamentiamo di certo. Mio marito lavora ed ha cinque figli grandi: come potrebbe essere ricco? Gianluca ha un modo di fare elegante che non dipende dai soldi, ma dalla tradizione di una famiglia della quale fanno parte ingegneri, professionisti ed anche un rettore universitario».
Nell’estate 1984 passa alla Sampdoria, con la quale esordisce in Serie A il 16 settembre, proprio contro i grigiorossi: la partita si gioca a Genova e finisce 1-0 per i padroni di casa. Il suo arrivo coincide con il periodo d’oro della società blucerchiata, ancora a secco di vittorie a livello nazionale e internazionale. Negli otto anni di permanenza conquista tre Coppe Italia, una Coppa delle Coppe, uno scudetto e una Supercoppa di Lega. Si permette il lusso di dire “no” al Milan; tantissimi soldi alla Sampdoria e un ingaggio da re: «Ringrazio il presidente Berlusconi, ma voglio restare a Genova. Ho bisogno di un ambiente come questo della Sampdoria. E poi adesso è una grande squadra, hanno smesso di considerarci dei piccoli viziati perennemente con la testa fra le nuvole. Voglio vincere qua, poi ci penserò».
La delusione più grande arriva proprio il giorno della sua ultima partita nella Sampdoria, la finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona persa 1-0 ai tempi supplementari, pochi minuti dopo la sua uscita dal campo. Si rifarà quattro anni più tardi con la Juventus, vincendo il trofeo ai danni dell’Ajax, ed anche in quell’occasione si tratta del passo d’addio: è il coronamento a quattro stagioni indimenticabili in maglia bianconera, iniziate nel 1992-93 con la Coppa Uefa e proseguite con scudetto, Coppa Italia e, appunto, Coppa dei Campioni.
Vialli, all’inizio, vive Torino sognando Genova. Il mare di Nervi è tutta un’altra cosa rispetto al Po e la Juventus è molto lontana dal Pianeta Samp, dove Boškov lasciava vivere tranquillamente i giocatori. Nella sua seconda stagione in bianconero, soffre meno la mancanza del mare, ma subisce una serie incredibile di infortuni, tanto da mettere in discussione il prosieguo della carriera. In società parla di lui come di un ex, Trapattoni, quando emigra in Germania, è convinto che Gianluca sia un giocatore sul viale del tramonto.
Lo stesso Vialli racconta la sua metamorfosi da bomber declinante in leader vincente: «Nei primi due anni di Juventus ero “Brancaleone alle crociate” e non capivo. Ma come? Investi miliardi e poi mi fai allenare su un campo di patate, con poca assistenza e mi lasci da solo a preoccuparmi di tutto. Io ho bisogno di un profeta: se penso troppo mi faccio male, sono ossessivo, troppo perfezionista. E mi disperdo, mi deprimo. Io ho bisogno di pensare a giocare e basta. Ora lo faccio, ho attorno uno staff competente che decide per me. Il mio profeta è la Juventus e Lippi è l’uomo chiave».
Lippi e la cura Ventrone lo rimettono in perfetta linea con le esigenze di un calcio atletico e tecnico al tempo stesso. Vedendolo tirato a lucido nel ritiro di Villar Perosa, l’Avvocato Giovanni Agnelli, rivolto a Lippi disse: «Scusi, ma questo Vialli quando è arrivato alla Juventus era grasso come un tacchino, adesso è magro, bello, corre e segna. Cosa gli avete fatto?»
Lippi conosce la cura adatta a guarire tutti i mali di Vialli. Il tecnico gli dichiara la propria stima e lo ripulisce da un aspetto fisico non certo consono a un grande campione come lui. Vialli ritrova lo scatto e quell’elasticità atletica che a Genova gli avevano permesso goal impossibili in acrobazia. A trentuno anni vola prima sullo scudetto e poi sulla tanto agognata Coppa dei Campioni. Gianni Agnelli ora è entusiasta e non esita a paragonarlo a Gigi Riva.
Grande combattente e trascinatore, le tifoserie per le quali ha giocato hanno sempre riconosciuto in lui un esempio da additare agli altri e lo hanno perdonato nei periodi di cali di forma; uno degli ultimi modelli di bandiera di una squadra, di giocatore capace di trascinare undici giocatori con la stessa maglia alla ricerca di un unico obiettivo: la vittoria.
«Fare il capitano della Juventus è una grandissima soddisfazione, ma anche una grande responsabilità; ci sono molti oneri, ma anche molti onori. Credo che questo ruolo dia una carica psicologica notevole, perché ti senti in dovere di dare tutto quello che hai dentro; la fascia di capitano ti impone di cercare di non essere criticabile, negli atteggiamenti e nel rendimento. Poi, siccome nessuno è perfetto, è difficile poter svolgere questo ruolo nel migliore dei modi, però l’importante è cercare sempre di farcela».
A Genova era più di Mancini. Vialli era il culmine di un progetto, di una squadra irriverente e meravigliosa. Con Pagliuca, Mannini, Pari, Vierchowod, Lombardo, Dossena, Cerezo. Quella di Boškov e di Paolo Mantovani. Luca è stato l’anima più di Mancio per i goal e perché Roberto c’era stato prima di lui e ci sarebbe stato oltre lui. Vialli no; fu quella Sampdoria. Destro, sinistro, dribbling, testa, rovesciata. Luca segnava in ogni modo. È stato uno di quelli che ha cambiato il modo di giocare degli attaccanti italiani; la congiunzione tra la generazione dei Paolo Rossi e quella dei Totti.
Alla Juventus non ha cambiato solo la muscolatura che Zeman ha sempre giudicato sospetta. A Torino, Vialli ha creato un modello per se stesso e poi per tutti gli altri. A trent’anni, campione strapagato e celebre, tornava a coprire a centrocampo come uno che doveva prendersi il posto in prima squadra. Così come si è preso il diploma; da ragazzo aveva abbandonato gli studi al penultimo anno da geometra, a Cremona. Si presentò all’esame nel 1993; 42-60. Per la mamma che ci teneva, per se stesso che, forse, l’aveva preso come un insulto alla sua intelligenza.
Gianluca ha sempre avuto un rapporto contraddittorio con la maglia della Nazionale: i vari Commissari Tecnici che hanno allenato l’Italia non hanno mai potuto prescindere dalle sue grandi doti dinamiche ed esplose ma, alcune volte, è stato confinato in panchina, come ad esempio nei Mondiali casalinghi del 1990, quello che dovevano rappresentare la sua consacrazione a livello mondiale, quando fu costretto a farsi da parte per lasciare spazio al momento magico di Schillaci; le sue caratteristiche naturali di grande leader in campo hanno sempre fatto di lui un personaggio scomodo per le squadre nelle quali ha militato, soprattutto in relazione agli allenatori: da ricordare a tal proposito il conflittuale rapporto con Arrigo Sacchi, alla guida della Nazionale dopo la gestione di Vicini.
Dentro il suo armadietto negli spogliatoi dello stadio Comunale, Vialli teneva una piccola fotografia di Arrigo Sacchi, come stimolo a dimostrare all’allora Commissario Tecnico, che aver escluso Vialli dalla Nazionale era stato un clamoroso errore. E tale si rivelò alla luce del tormentato Mondiale di USA 1994, con il drammatico epilogo ai calci di rigore, e del successivo Europeo, due anni dopo in Inghilterra, culminato con l’eliminazione nella prima fase. Per spiegare il suo divorzio da Sacchi, Vialli dice: «Forse eravamo due galli nello stesso pollaio». E si tolse la soddisfazione di far capire a Sacchi, intenzionato a richiamarlo in azzurro a patto che il resto della squadra lo accettasse, che ne avrebbe volentieri fatto a meno.
Gullit, diventato allenatore-giocatore del Chelsea, chiede al club di ingaggiare Vialli, all’indomani del trionfo della Juventus in Champions League. Il feeling fra i due dura poco, tanto che Vialli è escluso dalla formazione titolare. Umiliato ma non domo, Gianluca prepara, in silenzio, la sua rivincita. Con pazienza, aspetta il suo momento, che non tarda ad arrivare. La squadra londinese non gira e Gullit è licenziato dal Chelsea, che, nel febbraio del 1998, rilancia Vialli. Nella doppia veste di giocatore-allenatore, guida il Chelsea alla conquista della seconda Coppa delle Coppe, dopo aver eliminato in semifinale il Vicenza dei miracoli di Guidolin. Nello stesso anno vince la Coppa di Lega inglese e una Supercoppa Europea. Il tutto si aggiunge a una Coppa d’Inghilterra cui aveva contribuito nel 1997 come centravanti.
Vialli sfiora anche la finalissima di Champions League, dopo aver fatto fuori la Lazio nei quarti, quasi fosse un’altra vendetta da consumare nei confronti delle squadre italiane. E torna persino a indossare i panni del calciatore, sia pure come saltuariamente, per il suo derby personale con il suo grande amico Roberto Mancini, approdato anche lui nella terra di Albione. Dichiara a “La Stampa”: «Beh, se elimino squadre italiane dimostro che, quando me ne andai dalla Juventus, non lo feci per un posto comodo in calcio di Serie B, come qualcuno vedeva il football inglese».
All’Inghilterra ha sempre detto “grazie”, per avergli dato la possibilità di entrare, da allenatore del Chelsea, in un supermercato ed esserci rimasto tre ore da uomo qualunque senza che nessuno gli rompesse le scatole eppure perché poteva andare a prendersi i biglietti del cinema e tornare a casa con il taxi pubblico.
Il Watford di Elton John ha messo in discussione tutto. Ha scelto la Serie B, perché ci doveva essere un progetto, un’idea, un futuro, ma c’era solo un nome vuoto. Luca ha smesso di allenare lì, alla periferia della metropoli che adora. Ha cercato una squadra senza candidarsi davvero; desiderava che qualcuno dall’Italia lo chiamasse. L’hanno fatto, ma non quelle che avrebbe desiderato lui. Ha sperato nella Nazionale del dopo Lippi e nella Juventus del dopo Moggi. Non è andata, forse perché non è un tipo facile per una società, per un presidente e per un direttore sportivo, perché è popolare e allora scomodo, perché dice di non aver avuto mai un padrone e, probabilmente, è vero.
GIANNI GIACONE, “HURRÀ JUVENTUS” LUGLIO 1996:
Maggio 1992, Wembley. Maggio 1996, Olimpico. In queste date c’è tutto il Vialli grande e monumentale che conosciamo, tappe pesanti come macigni nella carriera e fin nella vita di un uomo. Tra le due pietre miliari che sono già mito, il Vialli che disegna la sua vicenda bianconera scandita, ma sì, da infortuni, da disagi tattici e da qualche momento di confusione, ma anche, anzi soprattutto, da gloria allo stato brado.
Il Vialli che giunge, irrompe nella Juve alla vigilia della stagione di grazia 1992-93 è il campione che è nato e cresciuto nella città a misura d’uomo e di amici, la Genova sampdoriana che adotta come figli i propri campioni, se li coccola, implora ma non pretende, e soprattutto perdona quando qualcosa non va per il verso giusto e il risultato non arriva. Il primo Vialli juventino è anche il campione doriano più osannato, che non è riuscito nel prodigio di vincere la Coppa dei Campioni ma grazie lo stesso, è stato magnifico sognare, e via così. Certo, staccarsi da un ambiente del genere è dura, il contraccolpo può annientare fior di fuoriclasse, e, si capisce, crear problemi anche a Vialli, che pure è tetragono a queste e altre emozioni, navigato come certi capitani di lungo corso che frequentano il molo della Superba.
Si divaga, per forza. Ma torniamo a bomba. Vialli arriva alla Juve e capisce che le attese sono spasmodiche, che la squadra che assembla più di un fuoriclasse è una creatura a molte teste, e che il Trap, che sulla panca sta, vuole battere la concorrenza, Milan in testa, usando in maniera affatto originale le risorse disponibili. Vialli centrattacco vecchia maniera non esiste più, forse non è mai davvero esistito, e quando uno ha classe, la classe di Vialli, può benissimo adattarsi, fare il tornante o la boa, o magari anche il centrocampista.
E perché non il portiere, di grazia, si domanda qualcuno. Insomma, l’avventura nasce sotto auspici buoni ma non attimi, Vialli gioca un po’ qua e un po’ là, segna goal ditirambici come a Napoli, dove fa il verso al compagno Roby Baggio battendo alla sua maniera una punizione a uccellare portiere e barricata. O al Toro, nel derby del 22 novembre 1992 che sembra perso e improvvisamente non lo è più, visto che Vialli si incarica di prendersi in spalla compagni e avversari, portarseli nell’area granata e segnare di potenza, meglio di prepotenza, il goal che ribalta la partita.
Sembra fatta, i tifosi che non delirano per Baggio adottano Vialli, che è pure più trascinatore, più solare del compare con il codino. C’è la possibilità di mettersi il cuore dei fan in saccoccia, la settimana dopo, ma non è giornata: Juve-Milan, che a una manciata di minuti dalla fine vede i rossoneri vincenti, potrebbe finire almeno pari se Vialli mettesse dentro un rigore pro Juve. Non ce la fa, Rossi che già è lungo ancor più si allunga e ribatte. Come non detto.
La stagione prima di Vialli in bianconero ha altri momenti di gloria: la Coppa Uefa che arriva dopo doppia, tranquilla finale con i gialloneri di Dortmund, porta anche le stimmate di Gianluca, lesto a far goal contro ciprioti e cecoslovacchi, ma anche bravo a segnare un goal essenziale al Benfica di Paulo Sousa. Insomma, ci si può accontentare e l’anno successivo, si pensa, andrà meglio. Macché. La sfortuna si impadronisce di piedi e giunture del campione, che pure in agosto fa sfracelli in amichevoli e torneucci. Vialli gioca una miseria di partite, appena dieci, e i suoi quattro goal fanno dire a molti che è finito, che è stato bello pensare il contrario ma tant’è. Delusione, amarezza, insomma un velo nero a coprire un’annata che doveva essere di risurrezione.
È proprio vero che i campioni veri si riconoscono nel momento peggiore, dalla loro capacità di reinventarsi grandi, anzi grandissimi. Qui, estate 1994, comincia sul serio la favola del Gianluca bianconero. Con un atto di fede, reciproco, tra lui e Lippi, tra lui e il resto del mondo che crede nella Juve e in Vialli. Nasce in riva al lago di Buochs la più straordinaria delle avventure, vera favola a lieto fine, in più puntate ognuna delle quali ha una morale e un finale tutto suo.
Il Vialli 1994-95 è più e meglio del miglior Vialli che si sia mai visto prima. È campione che, ritrovati stimoli antichi e modernissimo spirito di sacrificio, si sottopone ad allenamenti massacranti e restituisce in campo quantità poderose di energia sotto forma di goal, assist e spinta ai compagni nei momenti che contano. È il trascinatore, prima che il bomber. E trova anche il tempo per segnare goal di straordinaria importanza, nei momenti giusti. Come a Cremona, patria sì amata, il 23 ottobre 1994. Chi ha mai visto segnare così, con un’acrobazia che è prepotenza fisica e mentale allo stato puro?
Timidamente, qualcuno paria di Gigi Riva detto Rombo di Tuono ma Vialli è più corale, più mente del pur immenso campione del Cagliari. E poi, dove le mettiamo le prodezze che castigano la Fiorentina oramai convinta di aver fatto il colpaccio al Delle Alpi, il 4 dicembre? Per non parlare del clou, atletico e psicologico, che Gianluca tocca a Genova, contro la sua Samp, il 26 febbraio, nella notturna che potrebbe vietare alla Juve di andare in fuga scudetto e che, invece, sanziona la supremazia bianconera sul campionato.
Ci vorrebbe un libro, un’enciclopedia, per raccontare per filo e per segno la stagione 1994-95 di Vialli senza trascurare dettagli che sembrano tali ma che fanno invece succosa sostanza. Uno scudetto ha sempre molti padri, ed è fin irriverente semplificare il tuffo in un numero di goal o di partite giocate ad altissimo livello. Ma è, fondamentalmente, così. Lo scudetto della Juve è la rivincita, umana più ancora che professionale, di Vialli campione dato per finito e invece, capace di stupire tutto il mondo.
Sarebbe l’apoteosi, probabilmente, se non ci fosse ancora una qualche questioncina in sospeso, tra il campione e la storia. Una questione che risale a Wembley 1992, appunto, e che casualmente coincide con il fortissimo, unico, straordinario traguardo della squadra e della società in cui Vialli, adesso, gioca e fa mirabilie. Insomma, c’è ancora la Coppa dei Campioni da tirare su. Vale la pena di vivere pericolosamente, intensamente, forse calorosamente, per un altro anno. Stringere i denti, metterci la zampata quando occorre, gettare il cuore oltre l’ostacolo. Il Vialli di Nantes e quello di Roma, 22 maggio, il giorno dei giorni, getta cuore, muscoli, cervello e fegato oltre una montagna di ostacoli. E sistema anche quell’ultima questioncina in sospeso. Diventa, insomma, leggenda.
Grazie di tutto, e di cuore, campione.
http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/07/gianluca-vialli.html?m=1