Vi tralascio tutto il resto della conversazione, che ha toccato spunti tecnici e tattici più o meno noti e più o meno dibattuti, non foss’altro perché tutto passa in secondo piano rispetto al mio giudizio che, ammetto, è assolutamente di parte. Perché io a Gonzalo Higuain ho voluto (e voglio) bene, dall’alto di quell’empatia che provi nei confronti di chi, dall’esterno, vedi molto più simile a te di quanto non avresti mai immaginato in un determinato momento della tua (e della sua) vita. Anche per questo ho avuto difficoltà a settarmi con i termini dell’ultima settimana: bilancio, ammortamento, plusvalenza, esubero, dicono tanto e, allo stesso tempo, non dicono nulla e non rendono giustizia all’uomo prima ancora che al calciatore. Nel fu numero nove io avverto la difficoltà del portarsi dietro il fardello di una predestinazione che non si è tradotta sempre in ciò che si sarebbe voluto, potuto e dovuto fare, il caricarsi, spesso anche oltre gli effettivi demeriti, di colpe proprie e altrui (soprattutto con la maglia della Nazionale), il dover convivere quotidianamente con la ferocia della critica pretestuosa e superficiale dei media, il fronteggiare praticamente da solo le vergognose manifestazioni di odio da parte della ex tifoseria: il tutto mettendoci sempre la faccia, restando sempre a disposizione alle superiori logiche di squadra e di gruppo, senza aver mai la possibilità (o la volontà?) di spiegare e spiegarsi, di dire la sua, di gridare il proprio dissenso per qualcosa che magari davvero non gli andava giù, di far valere per una volta e legittimamente il peso di 55 gol in 105 partite (fate pure 111 nelle ultime 177 in campionato: nessun attaccante come lui in Serie A dal 2013/2014 a oggi) con una maglia che pesa a sua volta e che non sempre lo ha messo nelle condizioni di esprimersi al meglio, anzi. Con buona pace dei discorsi da bar, delle battute (talvolta giustificate) sul peso forma, delle altrui rosicate che si trasformano in articoli in cui tutto ciò che si avverte è il disperato tentativo di distorsione della realtà (e cioè che Gonzalo Higuain è un campione: che non sempre sa di esserlo ma lo è, eccome se lo è) da parte di chi quella realtà proprio non vuole accettarla, del ripetere pappagallescamente i numeri nella fase a eliminazione diretta di Champions League senza nemmeno verificare quanto e come quei numeri (cinque gol in 11 presenze) siano perfettamente in linea con quelli degli altri top ruolo che non si chiamino Messi e, guarda te il caso, Ronaldo. Non è, però, mia intenzione avviare un debunking che si traduca in una ripetizione di quanto il campo abbia già proposto con oggettiva evidenza: semplicemente voglio ringraziare uno degli attaccanti più forti e decisivi che la Juventus abbia mai avuto, augurandogli tutte le fortune possibili per il prosieguo della sua carriera professionale. Perché è forte e perché se lo merita: e quelli forti e che se lo meritano sono trasversali e quindi estranei alle logiche malate del tifo, le stesse che adesso stanno giustificando la deminutio delle qualità di Caldara dopo un anno e mezzo passato a magnificarne ogni singolo gesto. Magari è giusto così, o magari no: di certo oggi, domani e per qualche tempo ancora mi sentirò un po’ più triste e un po’ più solo, senza per questo voler mancare di rispetto al nuovo che avanza. E senza mai smettere di chiedermi cosa sarebbe potuto essere se, quel giorno, dopo un 3-1 al Sassuolo in cui per 30 minuti etica ed estetica vennero a fondersi nel modo in cui tutti abbiamo sempre sperato almeno una volta nella vita, non fosse arrivato quel «qui non siamo al Real Madrid, qui le partite si vincono massimo 2-0», e tutto ciò che ne è conseguito. Per Higuain e per la Juventus. Ma suppongo succeda sempre così quando se ne va qualcuno cui vuoi bene. E che è forte. Fortissimo. Meno di Cristiano Ronaldo, certo, ma chi non lo sarebbe. In fondo è per questo che li senti così umani e così vicini, in quei momenti di solitudine personale e condivisa, tipica dei centravanti e delle persone normali.
: Questa è la storia di un ragazzo argentino che attraversa l’Italia, da sud a nord, e in mezzo c’è sempre la Toscana, “Vedi amico, nella vita c’è sempre qualcuno più forte di te”.
Bulldozer guarda Orso negli occhi dopo averlo gonfiato di botte sulla spiaggia di Marina di Pisa.
Nella trasposizione torinese di questo episodio l’arrivo di CR7 ha steso Higuain, l’eroe degli ultimi 2 anni, passato dal Napoli alla Juve scatenando reazioni che forse si erano viste, per chi ne ha memoria, solo quando Ranieri Pontello, allora presidente della Fiorentina, decise di vendere Baggio ad Agnelli in un’estate di notti magiche e non solo. Così oggi tocca al “povero” Gonzalo passare in un lampo da insostituibile a esubero, da materia prima a scarto da Joe Bugner a Nando Paone in un cocktail composto per 3/4 da esigenze di bilancio e il resto da questioni tattiche. Nel calcio conta sempre di più il presente e il presente cambia in un secondo. Dal 9 al 7 nel tempo di un attimo e la bandiera argentina è stata sostituita dal rossoverde Portogallo. La Juve che punta al 2019 resterà orfana del numero 9, colui che si è preso più volte l’attacco in mano ed è andato in missione a fare il rambo tra le giungle avversarie. Ha giocato da mediano talvolta, si è sbattuto seguendo gli ordini del mister livornese (la Toscana…) che ha teorizzato il caos solo se calmo, molto calmo. È diventato papà e ha segnato, tanto. Ripassano tutti davanti agli occhi i suoi gol: dal primo alla Fiorentina (Toscana…) lo slalom contro la Roma, i gol a San Siro contro il Milan, quelli svariati e meravigliosi contro il suo Napoli, prima senza esultanza, poi con goduria estrema e sfacciata. Il gol dell’1-2 nel suo primo derby, quando difese la palla col solo movimento del corpo banchettando sui resti d’un imberbe Barreca mentre tutti noi riuscivamo a pensare soltanto “è troppo forte”. E poi il suo viaggio arriva fino agli ultimi centri in bianconero: a Londra in una serata attraversata con le bombole d’ossigeno quando prima risveglia la bella addormentata bianconera e richiama col braccio la squadra a giocarsi la qualificazione e poi prega ogni dio col poco fiato rimasto affinché Dybala metta il gol decisivo. Fino all’ultimo, il numero 55 che decide un campionato, il 2-3 con cui infilza Handanovic in una delle serate più folli e nonsense degli ultimi anni juventini. Non diventerà mai una bandiera, forse due anni sono pochi in una Juventus già vincente, già lanciata a massima velocità. Era stato acquistato per vincere la CL, ci è andato vicino il primo anno pur non candidandosi per l’oscar come attore protagonista. È stato fondamentale, un faro là davanti. Si è calato subito nella parte, è diventato l’idolo dei tifosi in un istante, immolato per la causa scoprendosi regista che ha saputo mettersi anche dietro alla macchina da presa e non solo davanti. Costoso, sì ma anche prezioso.
Adesso si volta pagina, farà male all’inizio vederlo col rosso al posto del bianco ad abbracciare il nero, una puntura ogni suo gol sul tabellino. Ci si scopre sempre un po’ ingenui nel dispiacersi di fronte a due strade che si separano, ma bisogna farci l’abitudine, questo è il calcio: “a volte vinci, a volte perdi, ma continui a combattere. E se vuoi un amico, prendi un cane.”