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Ian RUSH

Nasce a Saint Asaph, nel Galles, il 20 ottobre 1961, Arriva alla Juventus nell’estate del 1987 con la fama di miglior attaccante del mondo, in virtù delle valanghe di goal segnati con il Liverpool (alla fine della sua carriera saranno 346 in 658 partite) e dei numerosi trofei sollevati, fra cui la Scarpa d’oro. Prenotato dalla squadra bianconera, che vince la concorrenza dei maggiori club europei, un anno prima è destinato a far coppia con Platini, per riproporre grandi coppie del passato, in particolare quella composta da Sivori e da Charles. Il gallese, che dovrebbe rinverdire le gesta del suo conterraneo Charles, arriva alla Juventus nel suo momento peggiore, con una squadra rinnovata e, soprattutto, segnata profondamente dal ritiro di Platini.
Non c’è più nemmeno Trapattoni, al suo posto siede Marchesi e Ian fatica tantissimo a inserirsi in schemi molto diversi da quelli di Liverpool. Marchesi chiede alla squadra di difendersi, prima di tutto, obbligando Laudrup a fare il terzino. Il resto della squadra non è un granché, gli eroi di mille battaglie sono stanchi e i nuovi non sono all’altezza dei sostituti.
Rush non riesce ad adattarsi all’Italia, sono molti i ritardi accumulati nel presentarsi agli allenamenti, (gli costeranno alcuni milioni di multa) e accusa pure continui malanni che ne rallentano l’inserimento, come l’infortunio accorsogli poco prima dell’inizio del campionato e che lo tiene lontano dal campo per circa un mese.
Discontinuo, quando è in giornata è irresistibile: se ne accorge il Pescara di Leo Junior alla terza giornata, affondato da un goal del gallese (mentre in Coppa Italia gliene rifila cinque in due partite!) e pure l’Avellino, liquidato con tre reti, una delle quali firmata dal centravanti venuto da Liverpool.
Segna anche contro all’Empoli e all’Ascoli, ma è contro il Torino che Rush dà il meglio di sé, segnando sia all’andata che al ritorno e mettendo il proprio sigillo anche nello spareggio per l’ammissione alla Coppa Uefa, risolto ai calci di rigore proprio dal gallese.
Rush, alla fine della stagione, ritorna al campionato inglese, sicuramente più adatto alle sue caratteristiche, ma lasciando la sensazione che, se avesse trovato un’altra Juventus, la sua storia avrebbe potuto essere raccontata in modo diverso.
«Sono arrivato in Italia nel momento in cui si ritirava Platini, e mi mandano via adesso che arriva Zavarov. Peccato, perché questa Juventus mi piace davvero, è diversa rispetto a quella dell’anno passato, fatta di uomini più esperti, anche se da scoprire, comunque non provenienti da squadre abituate a lottare per non retrocedere. Lo stesso Marocchi, che arriva dalla Serie B, viene da una squadra che ha sempre giocato all’attacco. È cambiato l’allenatore, se ne è andato Marchesi, con il quale non avevo trovato un’immediata comunicabilità: anzi, non ho neanche mai capito a che ora fissava, giorno per giorno, gli allenamenti. È stata un’impresa, per me, anche questa. Torno al Liverpool, il massimo, anche perché la mia ex squadra si è rinforzata ulteriormente da quando me ne sono andato. E stanno rinforzando anche i botteghini: da quando hanno annunciato il mio rientro stanno esaurendo gli abbonamenti, c’è la coda in strada, insomma, all’Anfield non aspettano altro che il sottoscritto, Alla Juventus invece la situazione mi sembrava diversa. In Italia, la gente ti parla come se fosse tua amica, poi se ne vanno e ti piantano un coltello nella schiena. Quando la Juventus giocava fuori casa, era ovvio che bastava il pareggio. Vedevo pochissimi palloni e, in queste condizioni, era difficile fare molto. Stranamente, per una squadra italiana, la Juventus giocava con palloni lunghi e alti nella speranza che io, in quanto britannico, amassi i contrasti aerei. Non capisco, il colpo di testa non è mai stato il mio forte. Per me sarebbe stato più semplice giocare con il pallone a terra. Mi sono rivolto ai vecchi amici per chiedere aiuto, ne avevo bisogno, cominciavo a essere veramente preoccupato. Souness mi ha impedito di impazzire, mi ha convinto che sono ancora capace di giocare. Mi ha parlato della mentalità italiana. Tutto è esagerato: la vittoria, la sconfitta, i goal. Si sono scritte molte bugie sul mio conto, ma i problemi sono stati quasi esclusivamente di natura tecnica. Mi piaceva la cucina italiana, scoprire un altro stile di vita. Ho anche preso lezioni di italiano. Ma la prima cosa da tenere presente è che in Italia non ci sono grandi attori o stelle del rock. La voce di Robert Redford è doppiata, e quindi come è possibile identificarsi con lui? Per cui, tutti si rivolgono al calcio. Noi calciatori siamo i numeri uno nei loro pensieri, le nostre vite sono esaminate minuto per minuto. Tutti si sentono degli esperti: il parcheggiatore, il barista, il cameriere, tutti. A volte dovevo fermarmi e convincermi che non era vero, ma invece era proprio così. Pochi giorni prima ero a Liverpool, lavorando duramente, segnando dei goal e bevendo qualcosa con i compagni dopo la partita. Alla Juventus, dopo la partita, non c’era nulla: la doccia, lo spogliatoio, e poi via. Ma forse sarebbe difficile fare due chiacchiere con qualcuno che ti ha sputato in faccia per novanta minuti. E così bisogna tenersi tutto dentro: i pensieri buoni e cattivi, le tensioni. È a questo punto che ho capito quanto mi mancava il Liverpool».
DA “HO CONOSCIUTO LA SIGNORA” DI ANGELO CAROLI:
Alla Juventus, esattamente trenta anni dopo John Charles, arriva un altro fenomeno gallese. Il gigante di Swansea era stato acquistato da Umberto Agnelli nella primavera del 1957. Ora la “Signora” si appella al volpino Ian, baffetti ben curati e impertinenti, occhi svegli, giocatore incredibilmente rapace. Ha il fiuto e i gesti repentini del puma. La scelta sul gallese del Liverpool nasce da una necessità, avere un cannoniere implacabile, e dalle relazioni molto amichevoli che si sono instaurate fra i due club dopo la tragedia dell’Heysel. Boniperti e Giuliano parlano spesso con il manager Robinson e con il presidente Smith.
Nella primavera del 1986 c’è l’aggancio ufficiale. Teatro delle operazioni è Londra, stupenda e viva come sempre. Ian è felice di incontrarsi con i dirigenti bianconeri. Il gallese è rappresentato dall’avvocato Dean. Le proposte della Juventus sono concrete e allettanti. Rush ne prende atto, sorride, accarezza i baffi e lascia aperto più di uno spiraglio per condurre a termine l’operazione più importante della sua vita, C’è da vincere la resistenza della fidanzata Tracey.
In fasi successive, il giocatore del Liverpool mantiene continui contatti telefonici con la Juventus. Finché, ai primi di giugno del 1986 decide di accettare le proposte di Boniperti. Vola a Torino e firma il contratto: 550 milioni lordi di lire all’anno per un triennio, più la garanzia di un premio minimo di 125 milioni lordi a stagione. Al Liverpool vanno due milioni e 750.000 sterline, pari a circa sei miliardi di lire da pagarsi in due anni. L’esito della trattativa è soddisfacente per entrambe le parti. Giuliano mi dice: «La determinazione è il particolare che più colpisce del giocatore».
Rush saluta il Liverpool dopo sette anni scanditi da valanghe di goal. 205 in sette anni e in circa 330 partite fra coppe e campionato. La prima rete nei “Reds” la mette a segno nel 1981, contro i finlandesi del Pollosura (Coppa dei Campioni). L’ultima, nel giorno dell’addio alla Gran Bretagna, contro il Chelsea. Quello realizzato al Chelsea è il trentesimo in campionato. La cifra complessiva stagionale è di quaranta bersagli, più i due nella Nazionale.
Rush disputa, il 25 aprile del 1987, l’ultimo derby (il ventesimo personale) fra Liverpool ed Everton (che è campione d’Inghilterra). Il palcoscenico è l’Anfield Road. Applaudito da una folla in delirio, riesce nell’exploit di eguagliare il leggendario Dixie Dean, esecutore storico nei derby di Liverpool degli anni Venti con diciannove bersagli. Al termine del match, la folla saluta Rush con affetto, mazzi di fiori volano dagli spalti. È lontano il dicembre del 1986, quando Ian ha una leggera crisi, dovuta sempre alle ultime riserve della fidanzata Tracey, un po’ turbata dall’idea di dover lasciare l’Inghilterra e Liverpool. Tracey viene a Torino il 22 maggio, visita la città e compie un sopralluogo in collina, dove andrà a vivere con Ian. È entusiasta della gente e della città. Il matrimonio si celebra il 3 luglio a Flint.
Ian appartiene a una famiglia molto numerosa. Dall’unione tra Francis Rush (operaio alle acciaierie Shotton) e Doris nascono, infatti, dieci figli, sei maschi, Graham, Gerald, Peter, Francis junior, Steve e Ian, e quattro femmine, Janette, Pauline, Carol e Susan. Il culto della tradizione e del rispetto per il prossimo unisce la famiglia, che vive a Flint, in mezzo al verde lucido dei prati senza fine, dove spuntano più cavalli che fiori.
Ian nasce il 20 ottobre del 1961 a St.Asaph in Galles. Gioca nel Chester fino al 1980, poi passa al Liverpool per 300.000 sterline. Con i “Reds” vince quattro campionati inglesi, una Coppa d’lnghilterra, due di Lega, una Coppa dei Campioni. Nel 1984 riceve la Scarpa d’oro come miglior goleador d’Europa, con trentadue reti all’attivo.
L’ultima volta che è venuto in Italia, John Charles mi ha detto: «Ian è più bravo di me e segnerà di più. Non esiste al mondo un cannoniere che conosca come lui l’arte di andare in rete».
A Rush l’Italia piace e non fa solo sfoggio di diplomazia quando ripete che: «La Juventus rappresenta un grosso obiettivo, poiché come il Liverpool vuol dire serietà e stile, successo e tradizione: e siccome so che i tifosi bianconeri ci tengono a vincere una seconda Coppa dei Campioni, farò l’impossibile per regalargliene una. Mi auguro che fa Juventus, nel 1990, mi rinnovi il contratto per altri due o tre anni. Mi dispiace molto che Platini abbia lasciato il calcio, chissà quanti assist avrebbe preparato per me!»
Quando parla della tragica notte di Bruxelles, Ian si fa triste: «Da allora ho sperato che un giorno i tifosi del Liverpool e della Juventus si potessero unire in un abbraccio affettuoso e sincero. Mi auguro che ciò accada presto, molto presto. So che in Italia potrò contare sul caldo sostegno dei nuovi tifosi. Mi dà comunque conforto sapere che anche i vecchi supporter del Liverpool mi saranno vicini con il pensiero, mi hanno promesso eterno affetto. Ho conosciuto l’avvocato Giovanni Agnelli e Giampiero Boniperti, sono dirigenti davvero eccezionali. Il presidente ha sempre voglia di vincere. Non potevo avere stimolo migliore. Come ricompensarli? Con la musica sempre gradevole, dei goal».
Ian Rush racconta, in un libro autobiografico, che a cinque anni fu colpito da una forma di meningite, rimase in coma qualche giorno, con febbre molto alta, solo con la borsa del ghiaccio mamma Doris riusciva a dargli sollievo. Poi, la guarigione completa. Ian ha trascorso un’infanzia movimentata, era uno scavezzacollo, saltava spesso le lezioni a scuola, litigava e si azzuffava con i coetanei, ha trascorso persino una notte nella prigione di Flint, ha guidato senza patente, prendeva solenni sbronze nei pub, usciva all’aria gelida della notte con la pancia piena di birra.
Racconta nel libro curato da Ken Goran: «Con una gang una sera abbiamo rubato in un emporio alcuni distintivi da infilare nell’occhiello del cappotto. Una bravata. Ci presero. Finii in tribunale, provai un senso di disgusto, ero minorenne e fui rilasciato. Mi dettero due anni con fa condizionale. È stata per me una lezione molto salutare».
Rush ama il cricket, il golf, il biliardo, l’ippica e le auto sportive. Ian da giovanissimo ha giocato anche a rugby e a hockey. Il football gli è penetrato nel sangue, come spiega la sua storia, che è oramai nota. Sono, infatti, acclamati il suo impetuoso fiuto del goal, la straordinaria scelta di tempo, la concretezza, la tecnica essenziale, il gioco di testa dirompente, il tiro forte con entrambi i piedi, lo scatto bruciante, quel muoversi sornione negli spazi stretti e intelligente in quelli ampi, l’astuzia nel coltivare in ogni gesto atletico la speranza, contro le speranze altrui, del successo personale del goal. È un bellissimo esemplare di attaccante, da sostenere con schemi continui e aggiranti. Il Liverpool ha costruito e imposto in Gran Bretagna una formula con il gioco di rimessa, con repliche alimentate però attraverso la partecipazione corale, con la squadra mai disunita e disarticolata. La Juventus dovrà sostenere l’azione di Rush allo stesso modo.
Ma la squadra di Marchesi non sostiene Rush né con manovre aggiranti né con schemi corali. Ian appare come un corpo estraneo, quasi staccato dalla squadra. Sono esigui i palloni che gli sono indirizzati da fondo campo. Ben poco gli viene servito dalle zone laterali, se si eccettuano i rari traversoni di De Agostini oppure di Cabrini. E anche se il gallese fa ben poco per mettersi al servizio del collettivo, i colleghi non lo sostengono come si conviene. E si vive in una sorta di equivoco, non voluto da nessuno ma che diventa quasi fisiologico. Il gioco di Rush è basato sull’intuizione rapinosa, sulla ricerca dello spazio vincente. Però gli spazi gli si restringono davanti. E quando dopo un lungo infortunio segna due goal al Pescara, i tifosi sono convinti di avere davanti le immagini che il gallese aveva regalato a Liverpool, l’irrequieta città dei Beatles. Ma una rondine non fa primavera, Ian fallisce clamorosamente.
Terminato il campionato, la Juventus va in ritiro nel verde smeraldo di Buochs. Rush non arriva. È a Flynt in Galles, colpito da varicella, una malattia esantematica di cui per solito si è vittime nell’infanzia. Il medico sociale, dottor Bosio, parte
per la Gran Bretagna. Vuole constatare l’entità del male. Ma Ian, proprio come i brasiliani, soffre anche di nostalgia. Chiede alla Juventus di lasciarlo andare e al Liverpool di accoglierlo di nuovo nei suoi ranghi. Pochi sono i tifosi bianconeri che lo rimpiangono. Un secondo anno lo avremmo rivisto volentieri, se non altro per concedergli quella prova d’appello che non si nega a nessuno. I rapporti tra Juventus e Liverpool sono ottimi e il ritorno di Ian in Inghilterra da nostalgico sogno si trasforma in realtà. Dalglish si riprende quello che definisce un suo gioiello.
VLADIMIRO CAMINITI:
Che avesse predisposizione per il goal, lo testimoniavano le sue irripetibili prodezze prima con il Chester e poi soprattutto con il Liverpool, arrivando a conquistare la Scarpa d’oro come più forte bomber d’Europa e conseguentemente del mondo. La Juventus lo ingaggia anche nel ricordo del mito, big John Charles; Ian Rush arriva e squillano le trombe. È un grande acquisto. Anche perché viene per colmare il vuoto lasciato da quello che l’Avvocato ritiene il più grande di sempre, ovverosia Michel Platini. Sono stati ceduti Briaschi, Caricola, Manfredonia, Pioli, Serena e Soldà, la rifondazione è profonda ma obbedisce ai postulati “bonipertiani”; con il gallese, arrivano Alessio, Bruno, De Agostini, Magrin, Napoli e Tricella. Teoricamente nessuno di questi calciatori sembra destinato a fallire, nell’impatto con la grande squadra. Tutti sono stati scelti con la massima attenzione. Ma le cose del calcio, che è una faccia della vita, non seguono regole precise. Comincia il campionato e sembra che Ian Rush fatichi a inserirsi nel contesto generale della squadra, affidata per il secondo anno a Rino Marchesi, raffinato quanto sfortunato e triste allenatore, non ne azzecca proprio una. Esattamente come la Scarpa d’Oro. Rush, anziché sgroppare inafferrabile, anziché fiondare in goal i suoi tiri perfetti, le sue testate assassine, piomba in una crisi inspiegabile, gli riesce tutto difficile, si intorpidisce il suo spirito e si incupisce nella sfera privata, riflettendo in campo quella che è una sua personalissima involuzione. Rino Marchesi non può farci nulla. Se anche l’attaccante è forte, e lo ribadirà rientrando alla base, nel nostro campionato non incide più di tanto; la squadra finisce sesta, abbastanza ingloriosamente; Boniperti decide di dare il via a un’ennesima rivoluzione, optando per il russo Zavarov e il piccolo, rampante portoghese Rui Barros.

http://ilpalloneracconta.blogspot.com/2007/10/ian-rush.html?m=1

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