Questo blog è nato per dimostrare una specifica tesi, che la Costituzione del 1948 – col suo impianto lavorista, democratico e sociale – non ha retto all’aggressività dell’ordoliberismo dei Trattati UE, sia per l’esistenza di alcune falle nel testo originario della Carta (probabilmente dovute alla genesi della stessa, dopo una guerra persa e un trattato di pace particolarmente penalizzante), sia per le improvvide modifiche che nel tempo si sono stratificate (in particolare: la riforma del Titolo V nel 2001, governo Amato, e dell’art. 81 nel 2012, governo Monti), sia per la volontà specifica – da parte di chi avrebbe dovuto proteggerla (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale) – di contribuire a snaturarla.
Il ricorso per conflitto di attribuzione (art. 134, secondo alinea, Cost.) da parte del gruppo parlamentare al Senato del PD, che ha impugnato al recente legge di bilancio, è la plastica rappresentazione specialmente dell’ultimo assunto.
“La Corte costituzionale giudica… sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato…”: si tratta dei c.d. conflitti interorganici (per distinguerli dai conflitti intersoggettivi, p.e. quelli fra Stato e Regioni). In sostanza, secondo Marcucci & co. il governo, presentando, more solito, il maxi-emendamento con cui ha riscritto la legge di bilancio e ponendo sullo stesso, more solito, la questione di fiducia, prima tuttavia dell’esame da parte della Commissione bilancio, avrebbe violato l’art. 72, c. 1, Cost.. Con alti lai da parte di interessati sacerdoti della centralità del Parlamento, di cui strumentalmente danno un’immagine oleografica e ottocentesca, oltre che – ça va sans dire – completamente inesistente. Tra questi si è distinto anche Guido Crosetto, rappresentante di un partito che ambisce a ripercorrere tutte le tappe di Alleanza Nazionale, soprattutto quelle verso l’irrilevanza dell’ultimo Gianfranco Fini.
Senonché, secondo la legge e la giurisprudenza della Corte costituzionale il conflitto di attribuzione può essere sollevato solo da “organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali” (cfr. art. 37, c. 1, L. n. 87 del 1953). La Corte costituzionale ha comunque ammesso la legittimazione di organi che, a stretto rigore, non sono organi di vertice (i singoli rami del Parlamento, il Consiglio dei ministri, i singoli giudici ed i pubblici ministeri, il Presidente della Repubblica, se stessa, la Corte dei conti, il Consiglio superiore della magistratura, le Commissioni parlamentari di inchiesta, addirittura il Comitato promotore di un referendum abrogativo, ecc.), ma ha di contro sempre escluso la legittimazione dei partiti politici (ordinanza n. 79 del 2006 e n. 120 del 2009) e, sia pure in modo non del tutto netto, anche quella dei gruppi parlamentari (ordinanza n. 149 del 2016 – “il presente conflitto, nei termini in cui è stato articolato, «non attinge al livello del conflitto tra poteri dello Stato, la cui risoluzione spetta alla Corte costituzionale»…, inerendo le argomentazioni addotte nel ricorso esclusivamente alla lesione di norme del Regolamento del Senato e della prassi parlamentare…” – e n. 280/2017).
Né pare che a diversa conclusione si possa giungere argomentando dalla crescente importanza dei gruppi nei regolamenti parlamentari (così il renzianissimo Bin) e nella concezione “non più atomistica della rappresentanza” (così l’ancor più renziano Ceccanti), posto che pare in ogni caso arduo comprendere quali siano – nel caso di specie – “le attribuzioni in contestazione” e come possano essere “di spettanza” di questa o quella articolazione del Parlamento, o quale “atto viziato da incompetenza” (sic!) debba essere annullato. Non a caso, la Corte – anche se con qualche parziale ripensamento – ha normalmente negato la possibilità di sollevare un conflitto di attribuzione nei confronti di un atto legislativo (rispetto al quale è previsto il c.d. ricorso incidentale: v. sentenza n. 284 del 2005), e lo stesso renzianissimo duo sopra citato evidenzia come un’eventuale accoglimento del ricorso da parte della Corte non potrebbe (e, per ovvie considerazioni di opportunità politica, non dovrebbe) condurre all’annullamento della legge di bilancio.
In altri termini: il PD ha presentato un ricorso che – anche se accettato – non porterà a conseguenze concrete e lo ha fatto con il precipuo obiettivo di combattere (come al solito, per via giudiziaria) una battaglia politica, meglio: partitica. Contro gli interessi del Paese. E quello che fa più male è che nel messaggio di fine anno il Presidente della Repubblica è parso sponsorizzare questa, diciamo, bella trovata (“la grande compressione dell’esame parlamentare e la mancanza di un opportuno confronto con i corpi sociali richiedono adesso un’attenta verifica dei contenuti del provvedimento. Mi auguro – vivamente – che il Parlamento, il Governo, i gruppi politici trovino il modo di discutere costruttivamente su quanto avvenuto; e assicurino per il futuro condizioni adeguate di esame e di confronto“).
Eppure, il conflitto di attribuzione è un istituto che questo governo avrebbe dovuto, e tuttora dovrebbe, guardare con attenzione.
Quando, incaricato Conte, il Presidente della Repubblica si è rifiutato di controfirmare la lista dei ministri, ben si sarebbe potuta esperire la via del conflitto di attribuzione innanzi la Corte Costituzionale, che avrebbe così potuto fare chiarezza rispetto a un testo così laconico come l’art. 92, Cost. (per una buona rassegna cfr. Lollo, di cui tuttavia non si possono condividere le conclusioni). In questo modo si sarebbe evitato sia l’imbarazzo di un impeachment minacciato e revocato nello spazio di un mattino (oltre che infondato, essendo stato il comportamento di Mattarella certamente grave ed extra ordinem, ma non così reiterato da giustificare il ricorso all’art. 90, Cost.), sia un pericoloso precedente che – in futuro – potrà essere utilizzato da altri P.d.R. che vogliano ingerirsi nell’indirizzo politico (che vogliano, per dirla col Foglio, “governare”) di un esecutivo non abbastanza “amico”.
Ma Conte – per opportunità politica (?) – non lo ha voluto fare. Sarà ugualmente per opportunità politica che il medesimo Conte non ha ancora sollevato conflitto anche in relazione alla nomina del nuovo Presidente della Consob, visto che né Rinaldi né Minenna hanno incontrato i favori del sullodato Mattarella (il quale, di conto, non aveva fatto un piego alla nomina di Nava, in comando per ragioni di servizio concesso dalla Commissione europea)?
Fonte: Il conflitto (di attribuzione) fra PD e democrazia
Di Sana Costituzione
Il blog di Luca Fantuzzi