respiropoetico

Flauto di vertebre | Adriana @Lilithins legge Majakowskij

VLADIMIR MAJAKOVSKIJ – 1893-1930

 

 

Seconda parte:  FLAUTO DI VERTEBRE

 

L’anima ho teso come una fune sul precipizio

e v’ho danzato, acrobata-equilibrista,

giocoliere delle parole“.

 

 

FLAUTO DI VERTEBRE

1915

 

PROLOGO

 

A voi tutte

che piacete o siete piaciute,

icone serbate dall’anima dentro i suoi antri,

in un brindisi alla vostra salute,

alzo il cranio traboccante di canti.

 

Mi chiedo ancora ed ancora

se non sia meglio mettere il punto

d’un proiettile all’essere mio.

Oggi io darò

per l’appunto

un concerto d’addio.

 

Raduna o memoria,

del cervello dentro il vestibolo,

le femmine amate in lunghi filari.

D’occhio in occhio versa il tuo giubilo.

Travesti la notte in antichi sponsali.

Travasa di corpo in corpo il tuo gaudio.

Che questa notte sia memorabile.

Oggi io suonerò il flauto

Sulla mia colonna spinale.

 

1

 

Miglia di strade io gualcisco in cammino.

Dove celare l’inferno che ho in me?

Quale Hoffmann divino

ti creò, o donna perfida?

Sono anguste le vie per la gioiosa bufera.

Gente vestita di gala attinge ed attinge la festa.

Io penso.

Grumi di sangue, i pensieri

Malati e rappresi mi strisciano fuori di testa.

 

Io,

taumaturgo di tutto quello che è festa,

con chi andare alla festa non ho.

Mi scaglierò a terra e la testa

Contro il lastrico sfracellerò!

Ho bestemmiato,

ho urlato che Dio non esiste,

e Dio ha avocato una donna dalle voragini amare,

tale che la montagna dinanzi a lei trasalisca,

me l’ha condotta e m’ha detto

d’amare.

 

Dio è soddisfatto.

Sotto cieli lontani

un uomo come una fiera esala l‘estremo sospiro.

Dio si stropiccia le mani.

Dio pensa:

vedrai, Vladimir!

È da Dio che fu stabilito

che io non indovini il mistero dietro il tuo nome,

che ha pensato di darti un vero marito,

e di spiegare sul pianoforte una musica d’uomo.

Alla soglia della tua alcova venire con passo felpato,

fare la croce sul tuo piumino purpureo:

lo so,

si sentirebbe puzzo di lana bruciata

e dalla carne del diavolo s’alzerebbe fumo sulfureo.

E me fino all’alba

ha sconvolto l’orrore

che tu fossi condotta

verso l’amore e il martirio.

Ho sfaccettato le mie lacrime in versi,

gioielliere in delirio!

Giocare a carte, sciacquare nel vino

la rauca gola del cuore!

 

Non ho bisogno di te.

Non voglio.

Tanto lo so,

fra breve

creperò.

 

Se davvero tu esisti,

o Dio,

o mio Dio,

se fosti tu a tessere il tappeto stellato,

se questo tormento,

ogni giorno moltiplicato,

è per me un tuo esperimento,

indossa la toga curiale.

La mia visita attendi.

Sarò puntuale,

non tarderò ventiquattr’ore

ascoltami,

altissimo Inquisitore!

 

Chiuderò la bocca.

Sillaba non udirete

dai labbri serrati dentro la morsa dei denti.

Attaccami

alle code di cavallo delle comete,

lacerami

contro le stelle taglienti.

Meglio ancora:

quando l’anima mia

si presenterà al tuo tribunale,

corruga le ciglia ed impiccami,

a guisa di criminale,

al capestro della Via Lattea.

Fa’ di me quel che ti pare.

Squartami se vuoi.

La tua mano sarà da me benedetta.

Soltanto,

ascoltami!

Portati via la maledetta

che mi hai condannato ad amare!

 

Miglia di strada io gualcisco in cammino.

Dove celare l’inferno che ho in me?

Quale Hoffmann divino

ti creò o perfida donna?

 

2

 

Sfuma il cielo,

immemore del suo azzurro colore.

Le nuvole son come profughi grigi.

Le dipingerò con le tinte del mio ultimo amore,

vivido come l’incarnato di un tisico.

 

La mia gioia soffocherà

il ferino ululato

di chi non sa più che cosa sia la felicità,

di chi la propria casa ha scordato.

Uscite di sottoterra,

uomini delle trincee:

c’è tempo a finire la guerra!

 

Anche se dura il terrore

della battaglia ubriaca di sangue come Bacco di vino,

non sarà vana una parola d’amore.

Cari tedeschi,

accorrete!

Io so che avete sul labbro

la Margherita

di Goethe.

Muore

con un sorriso

sulla baionetta il francese.

Con un sorriso cade giù il trafitto aviatore,

se si ricorda

della tua bocca baciata,

e del tuo viso,

o Traviata.

 

Che m’importa quale rosea linfa

gli uomini rumineranno nel tempo?

Oggi ai piedi di una nuova ninfa

s’inginocchi ciascuno nel mio tempio!

Io te canterò

rossochiomata

e dipinta.

 

Forse di questa età

di questi giorni più acuti

che baionette e pugnali,

quando i secoli saranno canuti,

resteremo soltanto

tu

ed io,

che t’inseguirò di città in città.

Ti nasconderai in grembo all’ombra,

ti rapiranno oltre fiumi e canali:

io ti bacerò traverso alle brume di Londra,

con le labbra di fuoco dei fanali.

 

Se te ne andrai in carovana con lento

passo ove stanno i leoni in agguato,

sotto a te,

agli schiaffi del vento,

si farà sabbia la mia guancia infuocata.

 

Se un sorriso di simpatia

fiorisca sulla tua bocca

per il torero in ginocchio,

nel tuo palco

getterò come l’occhio

del toro la mia gelosia.

 

Un giorno

se varcando con gli occhi assorti

la Senna tu penserai

che si starebbe bene laggiù,

sotto il ponte io sarò la corrente,

ti chiamerò nel mio vortice,

digrignando i putridi denti.

 

Incendierai con un altro al trotto dei vostri cavalli

i viali nei parchi di Pietrogrado e di Mosca:

io tremerò come una luna pallida e gialla

sospeso ignudo nella vertigine fosca.

 

Avranno

bisogno di me.

Mi diranno:

muori in battaglia!

Il tuo nome

sarà l’ultima goccia di sangue

a rapprendersi sul labbro lacerato dal proiettile.

 

Finirò sul trono

o a Sant’Elena?

Quando avrò regolato

i flutti di questa procella – la vita –

egualmente sarò candidato

all’impero dell’universo

ed ai lavori forzati.

 

Se m’è destinato d’essere re

è il tuo piccolo viso

che farò battere

al popolo come moneta

nella vena dell’oro vivo!

Oppure laggiù

dove la vita del mondo si sprofonda in tundra e in neve,

dove traffica il fiume col vento del settentrione,

gratterò con l’unghia sul ferro, o Lilly, il tuo nome breve,

e bacerò le catene nelle tenebre della prigione.

 

Voi che avete dimenticato del cielo l’azzurro colore,

i vostri capelli son rigidi

come il pelo di bestie feroci.

Al mondo

questo è forse l’ultimo amore,

vivida aurora come l’incarnato di un tisico.

 

3

 

Dimenticherò l’anno, la data, il giorno della settimana.

A chiave mi chiuderò, con un foglio di carta soltanto.

Avverati, o magia sovrumana

delle sillabe illuminate di pianto!

 

Appena entrato nella tua abitazione,

oggi mi sono sentito

a disagio.

Avevi nascosto qualcosa nella tua blusa di raso

e s’aggirava nell’aria un lento profumo d’incenso.

Ti ho chiesto se eri contenta.

Mi hai risposto due sillabe fredde:

tanto.

L’inquietudine ha rotto le dighe della ragione,

ed accumulo il cruccio di un delirio di febbre.

 

Ascolta.

Non è possibile

che tu riesca a celare il cadavere.

Gettami in viso la parola terribile.

Perché non vuoi udire?

Non senti

che ogni tuo nervo contorto

urla come una tromba di vetro:

l’amore è morto –

l’amore è morto…

Ascolta.

Rispondimi senza mentire

(come farò a andare indietro?)…

Come due fosse

In viso ti si scavano gli occhi.

 

Le due tombe sprofondano.

Non se ne vede più il fondo.

Cadrò dall’impalcatura delle ore!

L’anima ho teso come una fune sul precipizio,

e v’ho danzato, acrobata-equilibrista

giocoliere delle parole.

 

Lo so

che s’è già consumato l’amore.

Ormai a più d’un segno vi riconosco la noia.

Ritornami giovane in cuore!

All’anima insegna di nuovo del corpo la gioia.

 

Lo so,

si paga sempre per una donna.

Che importa? La vestirò,

come dentro una gonna,

invece d’una toeletta comprata a Parigi,

col fumo della mia sigaretta.

 

Recherò l’amor mio

Per mille strade distanti,

come recavano gli antichi apostoli Dio.

Da secoli t’ho preparato un diadema,

costellato di sillabe vivide

in arcobaleni di brividi.

Come i giganteschi elefanti

che valsero la vittoria di Pirro,

a te io sconvolsi con la zampa del genio il cervello.

Inutilmente: di te

non avrò nemmeno un brandello.

 

Gioisci,

gioisci,

che finalmente mi hai dato

il colpo mortale!

Io desidero

fuggire al canale

per mettere il capo nell’acqua digrignante!

 

Mi hai offerto le labbra.

Rozze erano ed umide.

Le ho appena sfiorato e m’hanno agghiacciato,

come se in pentimento avessi baciato

un monastero tagliato nella pietra ruvida.

 

Hanno sbattuto la porta.

Egli è entrato,

rorido dell’allegria delle vie.

Io

mi sono spezzato

con un gemito in due.

Gli ho detto:

“Va bene,

andrò via.

Va bene,

sia tua.

Coprila di cenci, se vuoi

che pieghino sotto la seta le fragili ali di vetro.

Bada che può sfuggirsene a nuoto.

Attaccale al collo

una collana di perle come una pietra!”

 

Che notte

stanotte!

Il mio cruccio ho spremuto con forza sempre maggiore.

A sentire le mie risate e i singhiozzi

il muso della mia camera ha fatto una smorfia d’orrore.

 

Luce riflessa dai tuoi occhi sopra il tappeto,

si levò la tua effigie quasi immagine magica,

come se un altro Biălik evocasse in segreto

una favolosa regina per la nuova Sion ebraica.

 

Nel supplizio della passione

ora piego i ginocchi e la testa

dinanzi a colei che fu mia.

A mio paragone

Re Alberto,

che ha arreso tutte le sue piazzeforti,

è come se ricevesse regali per la sua festa.

 

Indoratevi ancora nell’erba e nel cielo sereno!

O vita, rifà primavera dalle tue mille fibre diverse!

Non voglio ormai che un veleno:

bere, sempre bere i miei versi.

 

Tutto mi rubasti col cuore,

e non mi lasciasti che il fardello della disdetta.

L’anima mi lacerasti come in un rovo.

Accetta il mio dono, o diletta:

forse non inventerò altro di nuovo.

 

Nei quaderni dei tempi scrivete la data d’oggi a lettere d’oro!

Avverati,

magia simile alla passione di Cristo.

Guardate:

sulla carta son crocifisso

coi chiodi delle parole.

megliodiniente

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