Di Emilio Aurilia
Si voglia o no, più che la denominazione di una band (mutuata dal nome di un agronomo inglese del seicento) Jethro Tull rappresenta lo pseudonimo dietro il quale nel 1967 ha deciso di celarsi lo scozzese Ian Anderson che, insieme ad un numero di gregari tutti mutati nel tempo ad eccezione del chitarrista Martin Lancelot Barre, ha dato vita ad una interessante proposta musicale impostata su di un folk di base di ovvia ispirazione scozzese, in cui s’inseriscono vigorosi elementi di blues e di rock quest’ultimo dai toni molto spesso heavy. Pur essendo strumentalmente molto versatile (chitarra acustica, piano, organo, violino, percussioni e altri strumenti minori), Anderson si è posto all’attenzione di pubblico e critica per aver elevato a strumento caratterizzante il sound del gruppo il flauto traverso suonato spesso imprimendogli un soffio prepotente e sibilante e non a caso ancora oggi “Boureé” (un rifacimento da J. S. Bach), dopo più di cinquantanni dalla sua pubblicazione, viene considerato il suo brano più rappresentativo. L’album “Aqualung” (1971), impostato sul perfetto equilibrio di tutti gli stilemi compositivi dello scozzese (pressoché solitario anche nella scrittura dei brani), resta il loro capolavoro assoluto, benché proprio lui avesse scommesso di più sul successivo “Thick As A Brick” (1972) un concept in cui, ad un sound formalmente perfetto, non corrisponde altrettanta originalità compositiva tanto che, per ritrovare un prodotto nuovamente ricco di energia e originalità, bisognerà attendere il 1977, anno di pubblicazione di “Songs From The Wood“.
Da quel momento Anderson alternerà prodotti routinari ad episodi più degni di menzione, trovando anche il tempo per la prima prova solista “Walk Into Light” quasi ignorata da un pubblico a cui non doveva certo dimostrare le sue eccelse doti di musicista. Non si comprende se i JT si siano sciolti definitivamente, ripresentandosi in tour di tanto in tanto, ma fino a poco tempo fa, hanno proseguito l’attività e la loro musica, di fronte alla pochezza qualitativa odierna, svetta come il proverbiale “faro”; ma chi ha conosciuto il periodo di migliore vigore creativo del flautista, non può certo meravigliarsi o gridare al miracolo per i suoi prodotti odierni.
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