Articolo di Emilio Aurilia

 

 

Esistono gruppi o musicisti in attività da più di cinquant’anni che almeno da una ventina non riescono a far parlare di sé in termini entusiasti con il riscontro di pubblico e critica dei tempi andati. È questo il caso, purtroppo non isolato, dei King Crimson.
Generato dal chitarrista Robert Fripp esordisce discograficamente nel 1969 con “In the Court of the Crimson King” ancora oggi uno degli album più apprezzati e seguiti, complice anche il simpatico mostruoso faccione rosa della copertina del disco, diventato quasi una icona rappresentativa della band.
Fripp è un musicista molto versatile e fantasioso che, rimasto in pratica l’unico membro della formazione originaria, ha condotto la sua creatura a cambiare fisionomia nel corso degli anni, alternando l’attività del gruppo a quella solista piena di sperimentazioni e collaborazioni illustri (Brian Eno e David Sylvian su tutti).
Come si accennava la formazione non è mai stata stabile per più di un anno: nell’album di esordio, accanto al leader, figurava la coppia formata dal polistrumentista Ian McDonald e il batterista Mike Giles (titolari di un disco bellissimo di cui ci siamo occupati di recente sulla presente rubrica)e il bassista vocalist Greg Lake, a rifulgere nella splendida “I talk To the Wind” uno dei brani guida di quell’album fortunato.
“In the Wake of Poseidon” dell’anno successivo si mostra meno originale del precedente perché i cambi di formazione avvenuti proprio durante le registrazioni non hanno giovato alla compattezza del suono. Il seguente “Lizard”, registrando un ulteriore cambio di formazione, presenta numerose suggestioni jazz, condotte dall’efficace brass section formata da Marc Charig alla tromba, Mel Collins al sax e Nick Evans al trombone, specialmente nella suite che fornisce il titolo all’album impreziosita dai ripetuti ricami pianistici di Keith Tippett e dalla presenza nell’episodio iniziale della voce solista di Jon Anderson degli Yes, per un risultato di notevole interesse.
“Island” (1971) chiude in un certo senso il periodo più positivo dei King Crimson con un sound molto efficace che parte con la lunga e sognante “Formentera Lady” che vede l’esordio come bassista cantante (un vecchio pallino di Fripp che il bassista dovesse svolgere anche il ruolo di voce solista) il compianto Boz Burrell che, nonostante le critiche sulla sua presunta marcata inflessione dialettale, è perfettamente all’altezza della situazione mostrando grande versatilità, evidente nella complessa “Ladies Of the Road” dalle componenti beatlesiane rammentando nei versi il cantato di John Lennon e nei cori quello di Paul McCartney. Dopo che il leader ci delizia con due suoi strumentali antitetici “Sailor’s Tale” dal chitarrismo cupo e sintetico molto heavy e “Prelude: Song Of the Gulls” quasi un minuetto classico, giunge il pezzo che intitola il disco; l’episodio migliore basato su di un lento cantato con molto sentimento sostenuto dal flauto basso di Mel Collins, per chiudere con un superbo assolo di cornetta di Mark Charig.
Dopo l’efficace episodio dal vivo “Earhbound” (1972), ritornano col nuovo album di studio “Lark’s Tongue In Aspic” (1973) ad evidenziare un nuovo cambio di formazione, ma non di sound incentrato sui canoni più tipici del prog.
Siamo agli inizi degli anni settanta e seguiranno altri album in studio, dal vivo e antologie prima della svolta della decade successiva che registrerà l’ingresso del chitarrista Adrian Belew (ex Talking Heads) e del bassista sessionman Tony Levine per un sound che, allontanandosi dai barocchismi precedenti, virerà deciso verso un suono più diretto e asciutto fra synt pop e new wave che tuttora costituisce il marchio della leggendaria band, non riscuotendo più l’attenzione riservata nei remoti anni settanta, come in apertura accennato.

 

 

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