Michela Murgia, la nuova autoproclamatasi gramscia della sinistra, in una delle innumerevoli ultime interviste che sta rilasciando, ha detto che la parola che le fa più paura è “nostro”. Indovinate perché. Perché forse pronunciandola in modo solenne, tutti in cerchio, con la musica al contrario e durante la notte di Valpurga, essa sarebbe in grado di aprire un portale che conDuce a Ilfascismo.
Strano perché nostro è concetto assai collettivista e dovrebbe piacere a chi è voglioso di scambiare le mutande con chiunque non gli ricordi il suo prossimo di sangue ed è bramoso di superare il losco individualismo, fratello separato alla nascita della libertà; come piace a chi, come Leuropa padrona, sottende materialisticamente nei suoi intenti che “ciò che è vostro dovrebbe essere prima di tutto nostro”.
Forse, a compungere la scrittora e psicometrista per caso è il conflitto interiore tra librerie con l’individualismo femminista de “la topina è mia e me la gestisco io” che può mandare in crash il sistema? No, è solo il problema del nostro che non è loro. La fottuta appartenenza. Nel mondo quantico di Kelledda, esistono due nostri: il nostro fascista e il nostro nostro. Prevedo presto un collasso dell’intera Galassia a causa di questo paradosso spazio-concettuale.
De Ilfascismo come psicoma che oramai affligge questi poveri disperati; sul loro corral interiore che delimita lo psicoma dal resto della psiche nel tentativo di conservarne l’integrità dalle frecce della tradizione e la fobia dei confini esterni che è metafora dell’angoscia della dissoluzione del sé, contrappasso del “faccio ciò che mi pare”, vi puntualizzerò prossimamente.
Ad ogni modo, se siamo costretti a parlare di una cosa discutibile come la pericolosità delle parole, piuttosto che delle azioni di chi pragmaticamente si attiene ai fatti, io, dovessi dirlo, tra le parole temo mesotelioma pleurico ma ancor di più filantropo.
No, non mi riferisco a quel filantropo, al nostro Jabba, ma ad un altro, meno frontman e sfacciatamente esposto ma proprio per questo più pericoloso. Perché il pericolo viene dagli individui che concepiscono progetti e programmi e si mettono in testa di applicarli al mondo costi quel che costi, non importa quanti moriranno, più che dalle parole che ne sono solo lo spot pubblicitario affidato a semplici comprimari e famigli.
Faccio un breve inciso. In ufficio ho un computer che è stato dichiarato ufficialmente obsoleto dal signor William Henry Gates III. Il suo cervello, quello del terminale in stato terminale, denominato Windows Vista, non è più aggiornabile con i richiami dei service-pack, quindi non è più possibile difenderlo dalle aggressioni esterne e nemmeno migliorarlo nelle prestazioni richieste da un utilizzo sempre più massivo della rete. L’antivirus, dal canto suo, avvisa continuamente che sarebbero necessari nuovi “vaccini” contro sempre nuove minacce ma il problema è che, ad ogni riavvio, la povera macchina di silicio gratta, gratta, esita sempre più a lungo per trovare le sue appendici (“sono la tua vecchia stampante, non mi riconosci più?”) e ogni mattina impiega più tempo ad avviarsi, ricomporsi, connettere ed accingersi alla nuova pesante giornata di lavoro su testi, calcoli ed immagini.
Da quando ne è stata decretata l’obsolescenza, con tanto di “ci dispiace ma Vista non è più supportato” da parte del socio portinaio pettegolo e compagno di merende Google, il mio computer non è più un hardware ma sembra assomigliare più ad un wetware, ad un cervello umano afflitto da una senescenza indotta o, più propriamente, da una malattia degenerativa progressiva.
Tutti mi dicono che è colpa della famigerata obsolescenza programmata, il male oscuro sapientemente inoculato che ha reso di fatto le macchine mortali per obbligarti a consumarne sempre di nuove, rottamando forzatamente quelle vecchiotte ma ancora funzionanti. E, comunque, nel caso specifico dei computer sarebbe un problema solo dei sistemi Microsoft, ché quelli Linux o Apple se ne fregano di driver e upgrade ricattatori e vanno sempre, anche sui vecchi 486 o Mac del nonno. In effetti, ciò di cui si vantano maggiormente i loro possessori, è che le loro macchine non hanno bisogno di quella invenzione sospetta che è l’antivirus.
Orbene. Mi è capitato di recente di dover disattivare momentaneamente l’antivirus per reinstallarlo. In quei pochi minuti di libertà di manovra, la macchina pareva essersi di nuovo disumanizzata: era scattante, veloce, quasi un Linux. Al che mi sono chiesta: ma non sarà proprio l’antivirus a provocare il problema della lentezza? A proposito: è nato prima il virus informatico o l’antivirus? E perché solo i sistemi operativi Microsoft hanno creato questa necessità di dotarsi di un altro software invasivo, che interrompe il tuo lavoro perchè deve scaricare aggiornamenti, che piano piano prende sempre più possesso del computer, ne controlla le porte di accesso verso l’esterno e ogni modifica, irrompe durante le tue navigazioni avvertendoti che ti stai avventurando in territori sconosciuti e perigliosi (magari sgraditi al Regime) e ti insinua quella sottile paura di essere spiato che è in realtà esso a praticare, possiamo scommetterlo. L’antivirus proclama solennemente di difenderti da quelle infernali righe di programma chiamate backdoor e trojan horse, questi morbilli informatici che potrebbero far morire il tuo computer ma in realtà non c’è peggior porta di servizio dal quale far entrare i cavalli di Troia di esso.
Veniamo quindi alla metafora. Il signor William Henry Gates III, per tutti Bill, pare avesse l’abitudine di memorizzare le targhe delle auto dei suoi dipendenti per poter, con uno sguardo sul parcheggio, sapere chi fosse già al lavoro e chi in ritardo o assente. Questa mania un po’ da idiot savant viene definita il suo “lato oscuro”.
Così come il fatto che da giovane sia stato arrestato per guida senza patente. Se fosse tutto qui, io stessa potrei vantarmi, in confronto, di essere una specie di Darth Vader.
Il padrone maniaco, in questo caso un ex nerd ora miliardario con la sua dose di ubbìe alla Howard Hughes, è sempre esistito e la sua è la patologia denominata delirio di onnipotenza che affligge inevitabilmente chi mette assieme, con più o meno merito, un 40 miliarducci di dollari di patrimonio. Si potrebbe notare a questo punto che nessuno ha mai attribuito a Dio il possesso di ricchezza materiale, nessuno l’ha mai immaginato come un grasso capitalista maialone alla Grosz, e ciò perché la ricchezza spropositata viene percepita come qualcosa che rende superiori all’Ente Supremo e spinge a mettersi in competizione con lui e non può che essere appannaggio di esseri assai terreni o persino sotterranei.
Se la sfida alla divinità si esaurisce nell’accumulo compulsivo ed autistico della moneta, è un conto. Quando però l’uomo con i miliardi incontra il sé stesso filantropo, orientato al “vostro bene”, o meglio al nostro non al loro, l’umanità è potenzialmente un’umanità morta.
In un capitolo del libro “Immunità di legge” de Il Pedante e Pier Paolo Dal Monte viene raccontata l’incredibile commistione tra interesse collettivo e interesse privato e ossessione personale che è il rapporto tra Bill Gates e il governo mondiale della sanità.
Non tutti sanno infatti che l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, braccio sanitario dell’ONU, è finanziata, per la fetta più grossa generata da un unico soggetto privato, si parla di 350 milioni di dollari, proprio dal signor Bill Gates, attraverso la Gavi Alliance (Global Alliance for Vaccines and Immunization) e la Fondazione filantropica che gestisce assieme a sua moglie Melinda.
La Gavi è stata creata da Gates proprio per applicare su scala mondiale una strategia vaccinale a tappeto che nasce, dicono, da una personale ossessione di Bill per i vaccini. Chissà se generata dallo stesso psicoma che l’ha costretto ad inventare un sistema operativo vulnerabile ai “virus” e quindi dipendente da un somministratore continuo e cumulativo di “vaccini” che alla fine rende la macchina simile ad un povero essere umano malato. Una lotta tra virus e antivirus che sembra una lotta tra il bene e il male, l’Uomo e Dio. Forse solo una coincidenza da deformazione professionale, quella tra virus informatici e biologici dei coniugi Macbeth, o forse no. Come lo è, per aggiungere un’ulteriore metafora, l'”influenza” che il privato detiene sul governo mondiale della sanità.
Se il vaccino, attraverso l’obbligo, diventa uno strumento del Potere, il suo tallone di ferro, è giusto chiedersi se il filantropo lo sia veramente, un amante sincero dell’umanità, oppure noi siamo solo il cibo umano, il soylent green per la sua ossessione.
Come scrive Il Pedante nel libro citato:
“I coniugi Gates sono naturalmente liberi di concepire la popolazione mondiale come una rete di calcolatori su cui installare gli antivirus più aggiornati. Il problema sollevato da alcuni analisti è che, una volta insediatisi a suon di miliardi nelle cabine di controllo delle autorità sanitarie internazionali e dei centri di produzionescientifica, la loro visione, le loro priorità e le loro soluzioni sono diventate la visione, le priorità e le soluzioni di tutti.” (pag. 89)
La pericolosità del filantropo consiste quindi nel suo poter imporre, attraverso la fenomenale leva del denaro, il loro sul nostro. Il nostro, a questo punto, checché ne dicano le medium evocatrici di fascismi morti, può essere solo l’espressione della democrazia e della libertà di scelta. La vera immunità, non di gregge ma di comunità di esseri liberi e consapevoli. Liberi dagli antivirus generati dalle streghe di Seattle.
“È un pugnale ch’io vedo innanzi a me
col manico rivolto alla mia mano?…
Qua, ch’io t’afferri!…No, non t’ho afferrato…
Eppure tu sei qui, mi stai davanti…
O non sei percettibile alla presa
come alla vista, immagine fatale?
O sei solo un pugnale immaginario,
un’allucinazione della mente,
d’un cervello sconvolto dalla febbre?
Ma io ti vedo, ed in forma palpabile,
quanto questo ch’ho in pugno, sguainato.
E tu mi guidi lungo quella strada
che avevo già imboccato da me stesso,
pronto ad usare un analogo arnese…
O gli occhi miei si son fatti zimbello
di tutti gli altri sensi,
o la lor percezione è così intensa
che a questo punto li soverchia tutti:
perch’io t’ho qui, dinnanzi alla mia vista,
e sulla lama e sull’impugnatura
vedo del sangue che prima non c’era….
Ma no, che una tal cosa non esiste!
È solo la mia impresa sanguinaria
che prende una tal forma agli occhi miei.
A quest’ora, su una metà del mondo
la natura par quasi che sia morta,
ed empi sogni vanno ad ingannare
il sonno chiuso dietro le cortine(30).
Le streghe celebran le loro ridde
ad Ecate la pallida;(31) svegliato
dall’allarme della sua sentinella
l’ululato del lupo – l’assassinio
s’avvia furtivamente alla sua impresa,
come un fantasma, a passo lungo e lieve,
come il lascivo andare di Tarquinio.(32)
Tu, però, solida e sicura terra,
non seguire i miei con l’ascolto,
che le tue stesse pietre
non denuncino il luogo ov’io m’aggiro
e tolgano al silenzio di quest’ora
l’orrore che sì bene gli si addice.
Ma io minaccio, e lui continua a vivere.
Le parole, sul fuoco dell’azione
soffiano un’aria troppo raggelante.”
- Shakespeare, “Macbeth”, atto II.
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