Il DM 226/2011 ( in attuazione dell’articolo 46-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 — convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222 — , a sua volta emanato in recepimento in Italia delle direttive europee sul mercato interno dell’energia nel 2000) ha fissato metodi e criteri della riforma della distribuzione del gas.
La distribuzione del gas naturale è l’attività che, attraverso un sistema integrato di infrastrutture (cabine per il prelievo, impianti di riduzione della pressione, reti di distribuzione, punti di riconsegna) assicura il prelievo del gas dalla rete nazionale di trasporto per riconsegnarlo ai clienti finali (domestici o industriali). Il servizio di distribuzione del gas è un monopolio naturale, regolato dall’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) per gli aspetti tariffari e della qualità del servizio. Il servizio è svolto in concessione dagli Enti Locali.
La ratio della norma originaria era abbastanza chiara: semplificare il panorama assegnando a pochi grandi operatori privati (anche stranieri, sulla base del principio di parità tra operatori del mercato interno europeo) la maggior parte degli ATEM, espellendo dalla gestione gli enti locali e i piccoli gestori, considerati inaffidabili e inefficienti.
Il decreto del 2011 prevedeva che le concessioni in essere a quel momento dovessero essere messe a gara (dopo una definizione di nuovi “ambiti territoriali minimi”, gli ATEM) per individuare un gestore capace di rendere “efficiente” e “competitivo” il servizio per ognuno dei 177 ATEM individuati dalla legge. Le vecchie concessioni venivano quindi considerate scadute da una certa data e sostituite da quelle nuove aventi la durata di un certo numero di anni, man mano che le gare si fossero realizzate.
Il rinnovo di concessioni e concessionari ex DM 226/2011 si è arenato praticamente subito, poiché il meccanismo studiato per attuare il processo è molto complesso e poggia su pochissime certezze.
Dopo l’entrata in vigore del decreto, sono intervenute ulteriori e numerose modifiche e integrazioni, sia in termini di leggi che di regolamenti e delibere dell’ARERA (per non parlare di numerose sentenze contraddittorie di TAR, Consiglio di Stato, tribunali vari e di norme non direttamente legate alle concessioni ma che fanno riferimento ad esempio al modo con cui i Comuni devono redigere i bilanci). Oggi la situazione della normativa sul tema si presenta come un groviglio inestricabile.
Una prima difficoltà sta nella costituzione della stazione appaltante*, cioè del soggetto titolato a bandire, gestire e aggiudicare la gara di affidamento del servizio di distribuzione in tutti i comuni dell’ambito (l’ATEM). Secondo la legge, tutti i comuni ricompresi in un determinato ATEM devono consorziarsi e contribuire a creare la stazione appaltante, che possa bandire la gara. Già in questa fase, considerato che gli ATEM individuati dalla legge sono 177 e che i comuni coinvolti sono oltre 7.000, si è generato un blocco quasi immediato. Tanto che ad oggi gli ATEM che hanno dato corso alle gare si contano sulle dita di una mano. Nè è servito a sbloccare la situazione il potere di commissariamento che il decreto assegnava alle Regioni per “forzare” l’avvio delle gare entro un certo tempo limite.
L’avvio delle gare è stato reso di fatto impossibile da alcuni aspetti di merito, quale ad esempio quello del valore residuo da riconoscere al concessionario uscente (o agli enti locali che eserciscono il servizio e che un domani potrebbero trovarsi scalzati dal nuovo concessionario aggiudicatario della gara). Per esso infatti la legge sanciva il riconoscimento di un valore industriale residuo, calcolato secondo certi parametri, già esistenti nelle concessioni oppure facendo riferimento a un Regio Decreto del 1925. Ma anche su questo si sono innestate normative e delibere successive che hanno stravolto tale concetto, rendendo di fatto impraticabili le gare. Identica incertezza vige per il calcolo della remunerazione degli investimenti da attribuire alla tariffa. Anche perché si sono venuti a creare dei conflitti di interpretazione tra operatori privati ed enti locali (i primi interessati a pagare di meno e ad avere i più, i secondi nella posizione esattamente opposta).
Inoltre, il cosiddetto “Jobs Act” (legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, e decreti legislativi seguenti) ha cancellato le tutele relative ai trattamenti economici e previdenziali stabilite nel DM 226/2011, miranti ad evitare impatti per i lavoratori dipendenti del vecchio concessionario che si trovassero ad essere trasferiti al nuovo concessionario.
Avvio delle gare, metodo di calcolo del valore residuo per le concessioni in essere, trattamento del personale: su questo (e su molte altre cose, in realtà) la riforma si è bloccata.
Questa situazione di malsana prorogatio si protrae di fatto da sette anni, cioè da quando tutte le concessioni in essere sono scadute come prevedeva la legge.
Siamo oggi in una situazione per cui buona parte degli operatori titolari delle vecchie concessioni scadute eserciscono il servizio senza fare investimenti (se non quelli di minima evidenza). Questo perché essi non sanno se, come e quando tali investimenti potranno venire poi riconosciuti loro in tariffa, o in cassa nel caso di perdita della concessione.
Inoltre, anche molti Comuni sono contrari ad avviare le gare per l’affidamento delle concessioni a nuovi soggetti, poiché le condizioni attuali di tale affidamento si rivelerebbero un danno per le casse comunali.
Ciò genera non solo un rischio evidente e prossimo legato all’obsolescenza degli impianti (alcuni dei quali risalgono all’immediato secondo dopoguerra), ma anche un effetto gravemente depressivo dell’economia dell’indotto (i fornitori dei distributori).
Dunque, a 18 anni dal suo avvio, non solo la liberalizzazione delle concessioni non si è verificata (non portando quindi ad alcun miglioramento nella qualità del servizio, ammesso che ciò sia di per sé possibile), ma il servizio stesso è sempre più rischioso per la sicurezza dei cittadini, a causa del possibile cedimento degli impianti di distribuzione più vecchi.
Posto che un certo riordino del settore resta comunque necessario, dalla storia dei servizi idrico, telefonico, energetico, così come da altre più recenti e purtroppo ben più tragiche vicende, si dovrebbe trarre la conclusione che il servizio a rete fornito da grandi soggetti privati non porta di per sé a nessun reale calo delle tariffe e/o miglioramento della qualità del servizio.
Il grande soggetto privato massimizza il profitto, come è nella sua natura, attraverso economie di scala, risparmio di costi, aumento dei prezzi, ma ciò non comporta automaticamente un reale miglioramento del servizio per chi ne usufruisce. Nè si traduce in un calo delle tariffe (o prezzi). A meno che il concedente si incarichi di una attività molto impegnativa di stringente controllo. Se le leggi glielo consentono, però: spesso questa attività è in capo ad Autorità di settore prive di effettivi poteri sanzionatori e di controllo.
Oggi è necessario sbloccare questa situazione. Molte sono le cose da fare, a partire dal ridare un ruolo pieno agli enti locali anche come partecipanti alle gare (non solo come concedenti), magari ponendo dei limiti alle dimensioni degli operatori privati. Abbattere le ambiguità normative sul valore residuo e sul metodo di riconoscimento degli investimenti in tariffa. Affiancare gli enti locali per supportarli nel processo di avvio delle stazioni appaltanti. Prevedere rigidi parametri di controllo e obiettivi stringenti di miglioramento del servizio in capo al concessionario, dando poteri effettivi di sanzione agli organi di controllo.
L’alternativa, assai radicale, è quella di fermare il processo di riassegnazione delle concessioni, il che significherebbe disapplicare (diciamo ignorare) le normative europee sul mercato interno dell’energia e avviare un conflitto con l’Unione Europea. Ma anche in questo caso estremo, il settore ha urgente necessità di far ripartire gli investimenti e di un riordino, di cui ad oggi non si vede l’ombra.
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*Nota: la concessione è cosa diversa dall’appalto, tuttavia la legge definisce proprio “stazione appaltante” il titolare della gestione delle gare.