Film del 2021 per la regia di Paul Thomas Anderson, recensione SENZA SPOILER.
California, San Fernando Valley. Il liceale Gary Valentine vive il colpo di fulmine per Alana Kane, venticinquenne assistente fotografa. Nonostante i dieci anni di differenza fra i due, Gary non demorde; le iniziali riluttanze di Alana si trasformano nelle motivazioni che trascineranno i due in avventure di varia natura, alcune grottesche altre formative, nell’indimenticabile estate del 1973.
Paul Thomas Anderson ne combina un’altra delle sue. L’ex bambino prodigio si veste da maestro e continua direttamente dal punto più alto della sua parabola creativa.
Torniamo nella “splendida” San Fernando Valley (come la definiva il Dottor Peter Venkman) di Boogie Nights e Magnolia, di cui questo film è emanazione: una summa citazionista di stile visuale e narrativo.
Presentato come una storia organica in realtà è una film strutturato ad episodi (aggiungerei: non necessariamente consequenziali) che strizza l’occhio al tipo di pubblico che abbia affinità con la storia hollywoodiana di inizio anni settanta e con la “hustle culture” di cui questa storia è intrisa e da cui derivano estetica, luci, tempi e dialoghi.
C’è l’ “American Graffiti” di George Lucas (ambientato anch’esso nel 1973) che è un monumento al periodo decadente di Hollywood, un attimo prima che Scorsese dirigesse “Mean Street”, William Friedkin “l’Esorcista” e l’Europa ritrovasse la sua identità con “Effetto Notte” di Truffaut.
Ma lungi dall’essere una cantus in memoriam questo è un film vitale, scollegato, sensuale e giovane nel senso più bucolico del termine col condimento di una colonna sonora che, senza remore, si può definire una della più azzeccate e coinvolgenti degli ultimi anni.
E’ una storia d’amore, fra Gary e Alana? Forse.
Ma forse è una storia d’ amore per l’Amore, o per la nostalgia, o per il cinema stesso.
Dopotutto in California si fa questo: si costruiscono sogni per mestiere. Gary è un aspirante attore con qualche esperienza.
Alana riesce tra le mille cose a farsi provinare.
Non esiste il pensiero della fine e l’occhio del regista ferma un eterno presente.
La vita è solo giovinezza e la maturità non viene preventivata.
Gli adulti, quando compaiono, sono infantili, illogici, vanagloriosi, autoreferenziali e grotteschi: il regista non ci va giù leggero.
L’aura di commedia surreale che aleggia sulle parti di Sean Penn, Tom Waits e Bradley Cooper è una coltre di vergogna che nasconde una ferocissima critica.
Ci sono poi episodi di chiaro overwriting, che portano a certe performance a schermo francamente indecifrabili: John Michael Higgins col suo ristoratore che si rivolge alla moglie giapponese facendo il verso all’accento nipponico; oppure Ryan Heffington nel ruolo dell’assistente del personaggio di Bradley Cooper, stereotipo caricaturale dell’idea omofoba dell’omosessuale.
Il ruolo di Gary è affidato a Cooper Hoffman, figlio maggiore del compiantissimo Philip Seymour che con Anderson portò “Ubriaco d’Amore” (Punch-Drunk Love) a Cannes nel 2002, vincendo il Premio alla Regia; quello di Alana invece va ad Alana Haim, frontwoman del gruppo musicale delle HAIMS (che forma con le sorelle, anche loro presenti nel film) e sono entrambi esordienti. Se cercate l’ingrediente segreto di questa riuscita mescolanza disarticolata è proprio il carisma sovrumano dei due protagonisti. Centrati, potenti, bellissimi. Rara alchimia tra direzione, scrittura e interpretazione.
Così come il diavolo sta nei dettagli, il brutto di questo film sta nel suo stesso DNA: l’assenza di una trama vera e propria, la contrazione e distensione dei tempi narrativi e, in definitiva, la cultura americana specifica di quello spazio-tempo, non ricreabile e poco comprensibile in qualunque altro luogo.
Nel 1973 la crisi petrolifera colpì forte a seguito della Guerra del Kippur: l’oro nero dei Paesi Arabi fu usato al pari di “arma politica”. L’occidente si scoprì dipendete ma gli Stati Uniti si sentirono “vulnerabili”. Più volte e per lunghe sequenze si fa riferimento al petrolio, alla sua mancanza, ai suoi derivati, al carburante per automezzi (che restano sistematicamente a secco come se la spia della riserva si occultasse per imbarazzo agli occhi dei conducenti). Dopo “Il Petroliere” (There Will Be Blood), film del 2007 in cui Anderson racconta l’epica della scoperta del greggio in California, qui si passa al remake di Caravan Petrol di Renato Carosone.
Non fraintendetemi, per favore: il film è un gioiello di rara bellezza, personale e colto, impreziosito da performance attoriali spettacolari.
Però il tutto risulta iniziatico, troppo autoreferenziale a partire dal titolo: quanti sanno che Licorice Pizza è il marchio di una storica catena di rivendite musicali del sud dalla California? Quanti coglieranno il senso dietro la spiccata vena imprenditoriale del giovane Gary? E quanti capiranno la dedica a Robert Downey Senior (a prince), papà di quel Robert Downey Jr che tutti conosciamo come IronMan?
VOTO: Tre ciaKKini e mezzo 🎬🎬🎬 1/2, per film aristocratico che è una dichiarazione d’amore all’industria cinematografica hollywoodiana, che parla a pochi e richiede uno specifico background per essere fruito appieno.
La maggior parte degli spettatori (tanti o pochi ce lo dirà la storia) si accontenteranno.
Cristiano Dalianera 18/03/2022