Articolo di Ignazio Mongelli
Prendendo in prestito le celebri parole di Stan Lee in Spiderman e parafrasandole nelle vicende sportive, potremmo sicuramente affermare che “da grandi competizioni derivano grandi trofei”. La storia dello sport è, infatti, costellata di trofei che sono diventati delle vere e proprie icone, e che sono considerati unanimemente i simboli della vittoria e del successo.
Come non pensare al famoso Rosewater Dish, il “piatto” di Wimbledon, il più importante torneo di tennis del mondo, che viene consegnato alla vincitrice del singolo femminile dal 1886, oppure ai Championship Rings, gli anelli assegnati ai giocatori della squadra che vince il titolo NBA, il campionato professionistico di basket negli USA.
Alcuni trofei vengono addirittura indossati dagli atleti, che mostrano sulla loro pelle il simbolo della loro vittoria. È il caso ad esempio delle cinture di campioni del pugilato professionistico, o delle leggendarie maglie del ciclismo, quella rosa e quella gialla, indissolubilmente legate a doppio filo al Giro d’Italia la prima, e al Tour de France la seconda.
Nel calcio moderno le due coppe più iconiche sono sicuramente quella dalle “grandi orecchie”, la Champions League, per le squadre di club, e la Coppa del Mondo, per le squadre nazionali.
Ma c’è un trofeo, oggi forse un po’ dimenticato, la cui storia ha davvero dell’incredibile. Si tratta della coppa Rimet, intitolata all’omonimo ex presidente della FIFA, che da 1930 al 1970 è stata la coppa consegnata alla squadra vincitrice dei mondiali di calcio per squadre nazionali.
La coppa Rimet raffigurava la dea alata della vittoria Nike, ed era fatta di 1800 grammi di argento puro placcato d’oro, che la resero particolarmente avvezza al furto. In più, diversamente da quelle attuali, esisteva una sola copia della coppa, che veniva assegnata alla federazione campione la quale doveva conservarla per i 4 anni successivi.
Per questo motivo la coppa si trovava in Italia (nazione vincitrice del mondiale 1938) quando, in piena seconda guerra mondiale, niente meno che esponenti della Gestapo si recarono a Roma, a casa del segretario della Federcalcio Ottorino Barassi, per prenderne possesso. Barassi riuscì miracolosamente a nasconderla (pare sotto il letto), e a portarla nel 1946 in Lussemburgo, dove la FIFA assegnò al Brasile l’organizzazione del mondiale del 1950.
Nel 1966 la storia della coppa si colorò di un altro avvenimento incredibile. Il paese organizzatore di quel mondiale era l’Inghilterra che decise di esporre la coppa Rimet a Manchester, durante una mostra filatelica. Il 20 marzo, a meno di 4 mesi dall’inizio della competizione, il trofeo venne rubato. Il ladro, identificato poi in Edward Bletchley, mandò una richiesta di riscatto per 15mila sterline al presidente della federazione inglese, inserendo nella lettera anche la testa removibile della statuetta per dimostrare la veridicità delle sue azioni. Bletchey, che venne poi arrestato, non volle rivelare però dove aveva nascosto la coppa.
Il 27 marzo, ad una settimana dal furto, durante un delle sue solite passeggiate, Pickles, un cagnolino di 4 anni, trovò, seppellito in un giardino di Londra, un oggetto avvolto da una carta di giornale. Quell’oggetto altro non era che la coppa Rimet. Il cagnolino Pickles diventò una celebrità in Inghlterra anche, se non soprattutto, perché ad alzare quella coppa alla fine dei mondiali furono proprio gli inglesi.
La storia della coppa ha, purtroppo, una triste conclusione. Infatti, dopo essere stata consegnata definitivamente al Brasile dopo la vittoria ai mondiali del 1970, 4-1 in finale all’Italia, venne rubata dalla sede della Confederazione Brasiliana di Calcio nel 1983, da dei ladri che probabilmente la fuserò per poterla rivendere.
Nel 1997 una copia del trofeo, realizzato nel 1966 proprio nel periodo in cui venne rubato, fu messo all’asta. La FIFA se lo aggiudicò per 254mila sterline e oggi è in esposizione al National Football Museum a Preston.