È opportuno dedicargli attenzione.
È stato il bassista dell’Electric Light Orchestra per gli album “ELO 2“, “On The Third Day” entrambi del 1973 e “The Night The Light Went Down” un live pubblicato nell’anno successivo. Sempre nel 1973 ha realizzato in proprio “We May Be Cattle But We’ve Got Names” il primo album solista, un prodotto notevole permeato da un sound di raffinata fattura che lo rende a buon diritto uno dei “capolavori minori” e sconosciuti della pop music.
“Dribble dribble” in apertura mostra un Ollie Halsall in forma smagliante col suo chitarrismo ondeggiante e si pone fra le cose migliori del disco assieme a “Occasion“, una sorta di swing blues molto elegante ulteriormente impreziosito dal tocco meticoloso del vibrafono di Frank Ricotti (con cui il nostro ha realizzato nel 1971 “First Wind“) e destinato a spiazzarci con la sua chiusa country. “Do Right“, grazie al suo arrangiamento di fiati, riconduce ai Chicago e ai Blood Sweat & Tears più leggeri, mentre “Sweet Mirth” insieme al brano che fornisce il titolo al disco presentano un soul jazz sospeso, giocato su interventi strumentali densi di originalità. Con la voce roca modulata e tirata dove serve, il protagonista non opera alcuna concessione al pop sinfonico del gruppo dove ha militato. Una piacevole sorpresa anche per i palati più sofisticati.
Il secondo e, per ora, ultimo album “Stalking The Sleeper” del 1976, è invece meno brillante, orientandosi su di un soul più di maniera con arrangiamenti che riconducono a qualcosa di Barry White.
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