Articolo di Emilio Aurilia

Se i Beatles possono essere individuati in “Yesterday”, i Rolling Stones in “Satisfaction” e i Beach Boys in “Good Vibrations”, Mike Oldfield lo può essere in “Tubular Bells”, il suo album più conosciuto riproposto da lui stesso negli anni in diversi arrangiamenti.

Nato nel 1953 in una famiglia di musicisti (la sorella Sally è una nota cantante con cui giovanissimo ha realizzato un disco), ha suonato nei Whole World di Kevin Ayers fino al loro scioglimento (1971), due anni prima d’incidere l’album che l’avrebbe consegnato alla storia.

Al tempo codesta lunga suite venne in qualche modo considerata rivoluzionaria specie nel mantra finale in cui si avvicendavano molti strumenti musicali (tutti suonati da lui) a eseguire il motivo principale dell’opera.

Siamo nel periodo in cui il progressive rock domina la scena non solo italiana ma mondiale, grazie ai pregevoli prodotti di King Crimson, Genesis, Yes, Emerson, Lake and Palmer, Gentle Giant e altro a proporre piacevolmente un variegato caleidoscopio di musica ed emozioni.

Son molti gli album da Oldfield realizzati e non tutti di ottimo livello, non certo perché suonati male quando, anzi, la professionalità e la correttezza strumentale del nostro si sono mostrate come le caratteristiche più che evidenti, quanto per il sound pericolosamente stagnante nei suoi stilemi da concedere davvero poco all’originalità.

Nell’estate 1983, con l’album “Crises”, che ospita fra l’altro il cantante degli Yes Jon Anderson, ha tentato un approccio ad un pubblico più vasto grazie al singolo folk rock “Moonlight Shadow” per la gradevole voce di Maggie Reilly, cercando di bissarlo nell’anno successivo con “To France” ballata ariosa ancora per la voce della Reilly, dall’album “Discovery”.

Poi molti altri dischi sono seguiti, ben suonati, ma come si argomentava sopra, molto manieristi da far sfumare l’interesse per la sua produzione.

 

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