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PINK FLOYD

 

 

Articolo di Emilio Aurilia

 

 

Basterebbe nominare e ascoltare il loro “The Dark Side Of The Moon” (1973) per rinunciare a parlare dei Pink Floyd lasciando parlare invece soltanto la musica. Un disco che ha sbaragliato le vendite, uno dei più longevi nelle classifiche dei dischi più venduti in assoluto, pari forse a “Bridge Over Troubled Water” di Simon and Garfunkel a cui già abbiamo dedicato la retrospettiva e che da solo e senza esagerazioni, potrebbe rappresentare l’intera stagione del progressive rock. Un gruppo, quello in esame, che ha attraversato una delle stagioni più significative del rock firmando pietre miliari molto importanti caratterizzando l’epoca con un sound personalissimo e sempre efficace. All’inizio (1968) ha vissuto sulla figura accentratrice del visionario chitarrista Syd Barrett creatore di quel raptus astrale che ha caratterizzato la loro musica appunto fino all’inizio con l’album “The Piper at the Gates of Dawn” e poi, quando questi ha abbandonato in preda ai suoi deliri, il gruppo ha avuto la fortuna di sostituirlo con Dave Gilmour che ha contribuito a reinventare il sound rendendolo, se possibile, ancora più sofisticato ed efficace, utilizzando i primi marchingegni elettronici disponibili da applicare agli strumenti per un risultato assolutamente innovativo. A questo si aggiunga l’avvolgente lavoro di Rick Wright alle tastiere e l’inesauribile creatività del bassista Roger Waters, la mente più visionaria del gruppo dopo l’uscita di Barrett, e ci si può render conto di trovarci di fronte ad un suono capace di catturare l’ascoltatore. Gli album “Ummagumma” (1969) e “Atom heart mother” (1970) con la famosissima copertina della mucca in particolare, aprono le porte al loro capolavoro citato all’inizio con l’inconfondibile tic toc di apertura di “Speak to me” scritta dal batterista Nick Mason ad introdurre la sinuosa “Breathe” e poi l’arcinota “Time” fino all’epica “The Great Gig In The Sky” interamente strumentale affidata al piano di Wright e ai celestiali vocalizzi di Clare Torry. Ma come ogni disco di altissimo livello anche questo va còlto nella sua globalità per non sminuire questo o quel brano. Il successivo Wish You Were Here” (1975), apertamente dedicato a Syd Barrett, è egualmente un gran disco rifulgente, insieme al brano eponimo, con l’intensa “Shine On You Crazy Diamond”, ma non ripete la magia del precedente che resta unica. Waters ci presenterà nel 1979 la sua monumentale concept opera “The Wall” in cui è manifesta tutta la sua creatività, ma benché ben prodotto, ben confezionato e ben suonato anche grazie alla presenza di uno stuolo di musicisti da Bob Ezrin a Bruce Johnston, a Lee Ritenour e i fratelli Jeff e Joe Porcaro, più la prestigiosa New York Opera, resta alla fine un album lievemente retorico in cui si avverte tutta la sua voluta ragionata costruzione.
Poco da dire sui pochi restanti album seguenti ora privi di Wright, ora di Waters, ora di tutti e due. L’avventura si è conclusa con il mirabile lascito di una musica indimenticabile.

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