Articolo di Emilio Aurilia
Come per parlare dei Jethro Tull è imprescindibile riferirsi a Ian Anderson, così per parlare dei Queen è impensabile non riferirsi a Freddie Mercury. Eppure considerare Martin Lancelot Barre e Brian May semplici gregari, li si farebbe un torto proprio per la loro capacità di fedeli “luogotenenti” che hanno fornito lustro al frontman e al gruppo stesso mettendo in mostra le loro notevoli capacità chitarristiche, spesso il punto di forza di molte composizioni.
La svolta fondamentale per la nascita dei Queen la fornisce verso la metà degli anni sessanta il bassista Tim Staffell, componente insieme a Brian May appunto e a Roger Taylor degli Smile, presentando loro Farroukh Bulsara, un cantante blues di origini indiane, consentendogli di entrarvi a far parte prima di abbandonare lui il gruppo.
Da questo momento in poi Bulsara, che deciderà ben presto di cambiare il suo nome in Frederick “Freddie” Mercury, diventerà il membro fondamentale della band anche a livello compositivo, condizionandola in tutte le scelte nel bene e nel male. Sostituì il nome del gruppo con quello di Queen per richiamarsi alla loro presenza che doveva essere estesa e pomposa fino a diventare “regale”.
Dopo l’avvicendamento di altri bassisti che condussero all’assunzione definitiva al ruolo di John Deacon all’inizio del 1971, i Queen non cambieranno mai più formazione ponendosi nel tempo come uno dei fenomeni rock più curiosi e interessanti degli anni settanta, cominciando dal terzo album “A Night at The Opera” (1975) che nel titolo voleva significare l’affiancamento al genere rock di elementi più disparati e non a caso l’album contiene la fantasiosa “Bohemian Rhapsody” uno dei brani migliori della intera loro produzione se non il migliore in senso assoluto: una canzone (riduttiva la definizione) piena di soluzioni innovative: corali, contrappunti, discanto, improvvisi cambi di tempo ne fanno un brano unico anche per la sua eccezionale lunghezza al tempo, sei minuti, benché la “McArthur Park” di Richard Harris, superata per lunghezza dalla successiva “Hey Jude” dei Beatles, si fossero già imposte come singoli di durata superiore alla media.
L’attenzione di pubblico e critica consente alla band di continuare le uscite discografiche contenenti autentiche perle come “Somebody to love”, “We are the champions”, “Don’t stop me now”, “Crazy little thing called love”, “Radio Ga Ga”, “I Wanto to break free”; lungo una serie di album a cadenza annuale.
Una particolare menzione non può non meritarla “Innuendo” l’ultimo prodotto con Mercury in vita e il brano eponimo ha ancora una costruzione musicale solenne, ospitando Steve Howe già chitarrista degli Yes, e presenta la drammatica e commovente “The show must go on”.
Ma quest’ultimo titolo non è profetico perché rappresenta in pratica la fine del gruppo che tenterà alcune reviviscenze specie nei concerti (piace segnalare quella col dotato cantante Paul Rodgers, ex membro dei Free, nell’impossibile ruolo di sostituire Mercury), piacevoli, professionalmente riusciti, ma ovviamente privi della magia pregressa.
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