Articolo di Emilio Aurilio
Proposta molto interessante attiva dalla fine degli anni sessanta e per buona parte della decade successiva. Poco significativa la recente reunion del 2010 celebrativa del quarantennale di Glastonbury. Per loro è stata coniata la definizione di ragarock.
Come tutti sanno, nel 1967 i Beatles iniziarono una esperienza di meditazione trascendentale (o ne furono iniziati) non si sa quanto autentica e quanto una trovata pubblicitaria per conferire ulteriore lustro al fenomeno musicale più sotto i riflettori al tempo; fatto sta che compirono un viaggio in India sotto la guida del Maharishi Mahesh Yogy, utile per importare idee musicali e il più attivo dei quattro fu George Harrison che imparò a suonare uno degli strumenti più tipici della musica indiana, il sitar (imitato poi da altri musicisti occidentali), prendendo successivamente lezioni approfondite da Ravi Shankar e immettendo nel sound elementi della cultura indiana grazie alla partecipazione di musicisti locali alle sedute di registrazione, come avvenuto da Stg. Pepper in poi, e approcciandosi alla conoscenza del sanscrito tramite il prof. Juan Mascarò.
Su tale scia si è mosso il gruppo dei Quintessence costruendosi una immagine esotica non solo relativamente alla musica, al logo e alle immagini delle copertine dei dischi, bensì anche nei nomi scegliendo pseudonimi indianofoni.
Il flautista Raja Ram, leader della formazione, è australiano e si chiama in realtà Ronald Rothfield così come il chitarrista Maha Dev (purtroppo deceduto nel 2009) si chiamava Dave Codling.
L’album di esordio “In Blissful Company”, contando sulla direzione sicura dell’esperto John Barham, vive di episodi intensi come “Gange Mai”, e la delicata “Pearl and Bird”; nel successivo “Quintessence” (1970)” rifulge la possente “Jesus, Buddha, Moses, Gauranga” in apertura e “Dive Deep” del 1971 annovera la minisuite “Dance for the One” senz’altro fra i brani più rappresentativi di quel fantasioso rock mischiato a forti elementi di musica tradizionale indiana, prog e psichedelia che ha caratterizzato la loro produzione e la trilogia appena citata è quella che meglio è riuscita ad esprimere il talento di un gruppo che andrebbe riscoperto per essere apprezzato come merita.
A solo scopo di curiosità, riportiamo che a provare a riproporre parzialmente qualcosa d’impostazione simile ai Quintessence si è fatta notare, in tempi recenti (dal 1996 al 2016 con intervalli) la band inglese Kula Shaker, ma senza troppo clamore.
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