Nasce a Montebelluna, in provincia di Treviso, il 19 dicembre del 1969. Il paese trevigiano ha già dato i natali a un illustre centravanti bianconero, Aldo Serena, da cui Renato erediterà la maglia numero nove della Juventus. Arriva a Torino nell’estate del 1985 e approda alla squadra Primavera; dai bordi dello stadio Comunale può ammirare le splendide giocate di Michel Platini. Nel campionato successivo, a soli sedici anni, esordisce in Serie A, contro la Fiorentina. Michel non gioca, al suo posto, con la maglia numero dieci, un improbabile Soldà; la partita finisce 1-1, ma il ragazzino ben figura.
La domenica dopo, ad Ascoli, Michel è in campo e la Juventus vince 5-0. Renato entra in campo al posto di Briaschi, giusto in tempo per segnare il suo primo goal in maglia bianconera. Alla fine della stagione, saranno diciotto le presenze con due realizzazioni, di cui una alla Lazio in Coppa Italia.
«Giocare accanto a Michel Platini è molto emozionante – racconta – abituarsi ad ammirare certi campioni alla TV e poi, non dico conoscerli dal vivo, ma addirittura allenarsi e giocare con loro, è stato stimolante. Ho capito subito che valeva la pena di mettercela tutta, per cercare di assomigliare a loro, di arrivare agli stessi risultati».
Renato si guadagna la conferma anche per la stagione successiva; Michel si è ritirato, Serena è tornato all’Inter, ma al suo posto arriva Ian Rush, il più forte attaccante del mondo. Renato non si preoccupa, in fondo ha appena diciassette anni, può tranquillamente sedere in panchina e aspettare il suo momento, che non tarderà molto ad arrivare. Il gallese, infatti, si infortuna nel precampionato e Renato è già in campo all’esordio stagionale, contro il Como. A fine stagione totalizzerà ben trenta presenze, ma i goal saranno pochini, solamente tre: «La mia scelta di restare a Torino non è stata dettata dalla presunzione, tutt’altro. Sapevo che sarebbe arrivato un grande campione come Rush, perciò ho parlato con il Presidente e con il dottor Giuliano. Poiché il loro volere conciliava perfettamente con il mio antico amore per i colori bianconeri, ho optato per rimanere, e oggi, sono molto soddisfatto».
Robusto fisicamente, di buona tecnica, abile di testa e in acrobazia, Buso ha tutte le caratteristiche per diventare un campione. Certo, non una prima punta, perché poco esplosivo; gli manca il guizzo, lo spunto per arrivare primo sul pallone in area (non è questione di velocità, ma di reattività). In realtà, quello che gli manca davvero è la personalità, la cattiveria, la grinta per giocare ad alti livelli tanto è vero che è in possesso di un buon tiro che, però, esplode raramente, preferendo mettersi a disposizione del compagno, piuttosto che cercare la via del goal.
Rush soffre di nostalgia ed è rispedito a Liverpool; a Torino arriva un mostro sacro come Altobelli, ma anche Spillo, causa problemi fisici, troverà delle grosse difficoltà e Renato si trova la porta del campo spalancata.
Ancora trenta presenze e sette goal: «Zoff mi ha dato una carica eccezionale, è bellissimo avere, come allenatore, un personaggio così grande, così ricco di esperienza. Sono stato fortunato a trovare la via della rete già alla prima partita, contro il Como. Certo, ho trovato anche delle difficoltà, dovute alla presenza di Altobelli; un maestro, un vero fuoriclasse, ma poco alla volta sono riuscito a conquistare il mio posto al sole. Non mi sono mai sentito titolare, comunque, ho sempre pensato che gli esami non finiscono mai».
La Juventus ha puntato gli occhi sul più forte giocatore italiano del momento, Roberto Baggio; la Fiorentina, per cederlo la stagione successiva, pretende subito Buso e così Renato, che ha solamente vent’anni, emigra a Firenze. Ritroverà la Juventus nella finale della Coppa Uefa e realizzerà anche il goal del momentaneo pareggio, nella partita di andata a Torino.
Buso comincia ad arretrare la sua posizione in campo; non è più la prima punta, ma spesso agisce come attaccante di supporto o, addirittura, come esterno di centrocampo. Dopo due stagioni lascia Firenze e comincia un lungo viaggio attraverso l’Italia, che lo porta alla Sampdoria, al Napoli, alla Lazio, al Piacenza, al Cagliari, sino all’estate del 2001, durante la quale si accasa a La Spezia dove, tre stagioni dopo, chiuderà la carriera.
Con la maglia bianconera ha disputato settantotto presenze e realizzato dodici reti, lasciando la grande impressione di eterna promessa non mantenuta.
VLADIMIRO CAMINITI, “HURRÀ JUVENTUS” LUGLIO-AGOSTO 1989
Che un ragazzo di vent’anni finalmente si decida a entrare per davvero dentro la casacca bianconera, non è un accadimento normale. Io voglio dire che Renato Buso è entrato nella maglia numero nove che nella Juventus hanno indossato tomi, ma vorrei dire fenomeni, dall’antico al moderno, e sarò esplicito, un Felice Placido Borel prima di un Gabetto e di un Boniperti e di un Nestor Combin e di un Anastasi e di un Boninsegna e di un Pietro Paolo Virdis e di un Altobelli. Il ragazzo è veramente in buona compagnia. Ma chi è, dove attinge il suo talento, perché si è messo a correre sulla giusta strada?
Ho un’immagine, un gesto, negli occhi. Trasferitevi con me a Fuorigrotta, in quello stadio abitato da una folla incredibilmente amorosa, non ci sono bandiere bianconere sugli spalti come nei giorni fulgenti, ma la Juventus vince, e vince bene, il goal di Renato Buso in contropiede è come un affondo di D’Artagnan, uno sciabolante stupendissimo tiro al volo, Giuliano Giuliani non la vede nemmeno.
Diceva or non è molto Carnevale, giovanotto di fortissima tempra, che la vicinanza di Maradona ha migliorato nei piedi, che oggi il centravanti statico, tradizionale, è un non senso. Buso dimostra che Carnevale ha ragione. Questo ragazzo di vent’anni, già solido come un tronco di quercia, sa giocare da vicino e da lontano, ha i numeri acrobatici (lo abbiamo visto) e un senso tattico molto spiccato. Ancora ingenuo, boccia spesso frontalmente, non mette a frutto come dovrebbe la sua potenza di lombi, il suo intuito del goal, i suoi egregi fondamentali. Bisogna riconoscere allo sfortunato Marchesi di avere sempre creduto nelle qualità di questo ragazzo alto 1,81 per settanta chili oscillanti.
Personalmente, mi sono cavato lo sfizio critico di pungolare a più riprese il giovinotto. Mi ispiro nella critica e nel racconto soltanto al campo. Mi ispira un proverbio della mia terra, che una madre meravigliosa e disgraziata era solita ripetere ai suoi figli, quando piangevano o lamentavano la severità dell’educazione: solo chi ti fa piangere ti fa ridere.
Oggi è difficile creare un campione. I mal esempi sono infiniti. Ma un campione juventino deve crescere con i modelli bianconeri. La fantasia di Felice Placido Borel, il tiro fenomenale di Boniperti, il guizzo nativo, l’agilità di Anastasi, mi pare possano rappresentare questi modelli ideali per il nostro ragazzotto, serio e compito, studente perfetto e fulgida promessa
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