22 giugno 1979, il pomeriggio è caldo, la pista di Caselle assolata. Dall’aereo proveniente da Roma sbarca la Juventus, reduce da Napoli, dove ha conquistato la Coppa Italia. I bianconeri sono stanchi dopo l’ultimo successo, ma sorride loro la prospettiva delle imminenti vacanze. Sorrisi e pacche sulle spalle, non tutti però sono allegri: per qualcuno, infatti, è il momento dell’addio; Romeo Benetti, oramai alla conclusione della sua esperienza in bianconero. Anche a Napoli, in occasione della sua ultima prestazione con la maglia juventina, il carro armato del centrocampo, ha offerto una grande prestazione, riscuotendo consensi dai critici e complimenti dai compagni.
In questa partita, ovviamente, Benetti non aveva più nulla da dimostrare: nei tre anni passati con la maglia bianconera, con prestazioni generose e tecnicamente valide, aveva sconfitto anche la diffidenza dei tifosi e degli osservatori che, al momento del suo secondo arrivo a Torino, avevano accolto con molto scetticismo la notizia del suo ritorno in bianconero. In effetti, il primo dei due periodi trascorsi alla Juventus offrì a Benetti poche occasioni.
Chiamato a Torino da Heriberto Herrera, il quale nell’estate 1968 si trovava praticamente nella condizione di ricostruire il centrocampo, Romeo Benetti, un giovane veneto (è nato ad Albaredo d’Adige, in provincia di Verona) di stazza possente proveniente dal Palermo, dove aveva vissuto una stagione strepitosa, distinguendosi come uno dei migliori della serie B, si vide affidare un compito alquanto impegnativo. E il suo avvio di stagione rispose pienamente alle aspettative. Disputò buone partite precampionato, fu il protagonista assoluto di un incontro di Coppa Italia con la Sampdoria, che la Juventus si aggiudicò con il risultato di 5-1 con tre reti firmate da lui, ma trovò maggiori difficoltà del previsto a inserirsi nel nuovo ambiente.
Schivo e taciturno, non troppo generoso durante gli allenamenti, circondato dalla diffidenza dei senatori della squadra (Del Sol, Cinesinho, Menichelli, Castano, Salvadore), poco stimato da Heriberto, Benetti non riuscì a imporsi nonostante avesse disputato prestazioni di indiscutibile validità: «Non era una Juventus pronta per vincere. C’erano senatori senza ambizioni, giovani acerbi e dirigenti oramai scarichi, un cocktail che non poteva avere successo. Infatti, ci piazzammo quinti in campionato e uscimmo subito sia dalla Coppa delle Fiere che dalla Coppa Italia. E pensare che il calcio, a quell’epoca, mi interessa relativamente; era quasi una forzatura. Sono maestro tipografo e ritenevo questa la mia vera professione; alla Juventus, invece, ho capito che, rincorrere e prendere a pedate un pallone, poteva diventare un lavoro che potevo portare a compimento per il resto della mia vita. Comunque, il mio rapporto con Heriberto fu bellissimo; anche se era umorale, spesso nervoso, perché capiva di aver fatto il suo tempo alla Juventus».
Alla fine della stagione viene ceduto, destinazione Sampdoria: «Non potevo oppormi; Colantuoni, presidente blucerchiato, era stato bravo a vincere il confronto con i dirigenti bianconeri nella trattativa per la cessione di Roberto Vieri e di Morini. Mi trovai così bene in Liguria da decidere di fissare a Chiavari la mia dimora, anche dopo aver appeso e gettato le scarpe bullonate in soffitta. Nella Samp, a quattro giornate dalla fine, centrammo la salvezza. A quei tempi, a Genova, evitare la retrocessione equivaleva a vincere uno scudetto».
I tifosi non si disperarono più di tanto, sicuramente non immaginando che le strade della Juventus e di Benetti sarebbero tornate a incrociarsi. Avvenne sette anni più tardi, stagione 1976-77, dopo che Romeo, personaggio dalle incredibili contraddizioni, estremamente duro sul campo (nel 1971 rimediò addirittura una denuncia penale per aver rotto un ginocchio al bolognese Liguori e poi, come dimenticare che, nei momenti più difficili, dalla curva Filadelfia echeggiava il grido: Picchia Romeo?) e capace di inimmaginabili dolcezze nella vita privata, gran parte della quale trascorsa ad allevare canarini, disputò una stagione con la maglia blucerchiata e addirittura sei, con quella del Milan: «Ero scapolo e ricevetti in regalo una coppia di canarini, con i quali mi dilettai a partecipare a un concorso che, a sorpresa, vinsi. Ovviamente, da quel momento in poi, su tutti i giornali si costruì una leggenda: “Il Benetti dai tackle duri ha anche un cuore tenero”. In realtà, il mio era solamente un modo per occupare il tempo libero».
Capello stava oramai declinando, la Juventus cercava un elemento di peso per sostituirlo e Trapattoni, che l’aveva guidato nel Milan, individuò proprio in Benetti l’uomo giusto. Non la pensavano però alla stessa maniera i tifosi i quali, arrivarono molto vicini alla contestazione. Ma il Trap, lombardo tenace e convinto di quel che faceva, non si fece condizionare.
E i fatti gli diedero ragione. Durante gli anni trascorsi lontano da Torino, Benetti era maturato e, pur non avendo perso le caratteristiche principali del suo carattere aspro e introverso, si dimostrò capace di legare con i compagni ben più concretamente di quel che gli era riuscito alla sua prima esperienza juventina. E sul campo, vicino a giocatori del calibro di Cabrini, Causio, Furino, Bettega e Boninsegna trovò il suo riscatto riuscendo a far cambiare idea ai detrattori. Diventò il lucchetto del centrocampo bianconero, facendo spesso saltare quello avversario con sventole formidabili.
Di alcune partite divenne il protagonista principe come a San Siro, quando trascinò la squadra (in svantaggio per 2-0 nei confronti del Milan) a un insperato successo propiziato con una rete segnata di prepotenza; o come a Firenze, dove realizzò il goal dell’anno con una botta al volo da quaranta metri con la quale sfruttò nel modo migliore una respinta del portiere.
E alla fine, scudetto e Coppa Uefa furono i sigilli di una stagione trionfale: «Era una Juventus programmata per vincere. Una grande società e lo sarà sempre, ma contribuì alla maturazione di Tardelli, Gentile e Cabrini, facendo crescere anche più rapidamente una squadra tutta italiana che centrò, al primo colpo, l’accoppiata scudetto e Coppa Uefa».
Ma Benetti si esaltò ancor più l’anno successivo perché, oltre a contribuire alla conquista di un nuovo titolo, si impose a livello internazionale riscuotendo un grande successo ai Mondiali di Argentina, dove fu giudicato dagli osservatori tra i migliori della grande rassegna calcistica. Una soddisfazione certamente meritata perché, con il trascorrere degli anni, Benetti era riuscito a conservare la grinta di combattente indomito affinando contemporaneamente le sue qualità tecniche.
Il cross che fece a Bettega contro l’Inghilterra, (2-0) durante le qualificazioni mondiali, è un valido esempio di una tecnica di base affatto disprezzabile: colpo di tacco del Barone Causio, volata di Romeo sulla sinistra, cross con il sinistro (non il suo piede) senza bisogno di rallentare, ovvero di controllare il pallone, e testata vincente di Bobby-gol: «È vero, mi sono affinato, ma mi pare naturale che questo sia avvenuto. Più che completato, diciamo che nel mio bagaglio tecnico ora esiste qualcosa in più; uno, infatti, cresce, ma mantiene le caratteristiche di base, che sarebbero grande dote di fondo, il coraggio che si trasmette ai compagni e la coscienza nelle proprie possibilità».
Il divorzio dalla Juventus arrivò, consensuale, l’anno successivo: oramai trentaquattrenne, stanco delle mille battaglie di una carriera combattuta e trascorsa all’insegna della generosità, Romeo si congedò dai tifosi in modo ben diverso dalla prima volta; se questa fu accolta quasi con soddisfazione, la seconda venne salutata da generale rimpianto. Ed anche questa fu una rivincita di non poco conto.
Milan e Juventus sono state le due squadre che lo hanno visto protagonista nel calcio italiano degli anni settanta. Con queste maglie ha vinto trofei nazionali e internazionali, che gli hanno fatto guadagnare per diversi anni anche un posto in azzurro. Un centrocampista completo, duro nei contrasti, ma corretto, coraggioso e intelligente, dotato di un tiro dalla distanza di notevole precisione e potenza. Molti in passato lo avevano accusato di essere un picchiatore. Oggi sarebbe considerato un giocatore a tutto campo, con degli ottimi piedi e insuperabile nei contrasti. Insomma Romeo Benetti ha probabilmente anticipato i tempi, aggiungendo alla sua grinta agonistica una dedizione alla causa per cui era chiamato a lottare (ma è meglio dire giocare) come oggi è raro vedere, almeno in Italia: «Ero un giocatore attaccato alla maglia con cui giocava. Ero ligio al mio dovere come molti altri, ma forse ci mettevo quel qualcosa in più per cui, come molti sanno, mi hanno dedicato parecchi cori per il mio atteggiamento da gladiatore».
Si definirebbe un giocatore moderno per l’epoca? «Probabilmente all’epoca nessuno se ne rendeva conto, ma forse sì, potevo essere considerato un giocatore moderno allora, un antesignano di un certo tipo di calciatore. La cosa essenziale, che non mi stuferò mai di dire, è che non amavo essere battuto dagli avversari».
Con moderno intendo comunque un centrocampista a tutto campo, dotato di un gran tiro, ma soprattutto un buon mix di tecnica e potenza fisica. «Quella era una caratteristica che ho sempre avuto. Nessuno me lo ha insegnato. Cercavo sempre di dare il massimo e qualche volta riuscivo anche a segnare e a giocare in tutte le zone del campo».
Non molti sanno che la sua prima esperienza in bianconero è stata nella stagione 1968-69. «È vero, e quell’esperienza non dico che sia stata traumatica, ma poco ci manca. Era una società ancora lontana dall’essere quello che sarebbe diventata con Boniperti qualche anno dopo. Non era super da nessun punto di vista, soprattutto da quello organizzativo. Era lontana dai giocatori. Adesso forse si esagera con i giocatori che sono tutelati in tutto, ma all’epoca quella Juventus era un’entità effimera, di cui non percepivamo bene l’esistenza. Non dico che mancasse qualcosa, anzi, ma non c’era affatto feeling e unione fra squadra e società. Anche da un punto di vista tecnico, senza offesa per nessuno, era una Juventus messa in piedi senza grande convinzione».
Cosa ricorda quando, da milanista, affrontava la Juventus? «Come ho detto prima, ho sempre difeso i colori per cui giocavo. Devo ammettere che spesso da juventino ho battuto il Milan e viceversa: diciamo che ho sempre accontentato tutti! Evidentemente c’era qualcuno che faceva la differenza in quelle partite. (ride). A parte tutto, quello era davvero il derby d’Italia. Si affrontavano le due società con più tifosi e la supremazia era una nota di merito non di poco conto».
Nell’estate del 1976 Giampiero Boniperti l’acquista dal Milan in cambio di Fabio Capello. Operazione simile a quella che porta, sempre in quella stagione, Boninsegna dall’Inter alla Juventus. «Si è parlato molto di questo scambio ed è vero che per l’epoca fu importante e insolito. Ma non dobbiamo dimenticare che allora i giocatori erano proprietà della società e non potevano svincolarsi come oggi. Se il tuo presidente decideva di tenerti per dieci anni non potevi andar via ed era quindi più facile diventare la bandiera di una squadra. In quell’estate Juventus e Milan si misero d’accordo per lo scambio e senza problemi io andai a Torino e Fabio Capello a Milano. Ma quell’anno la Juventus non prese solo me e Boninsegna, ma anche un grandissimo allenatore: Giovanni Trapattoni».
Un’altra squadra rispetto a quella in cui militò a fine anni Sessanta. «Quella sì che era una Juventus straordinaria e molto ben organizzata. Rispetto a qualche anno prima si respirava un’aria totalmente diversa. L’aria di una squadra costruita per vincere, che già aveva cominciato a farlo da qualche anno. C’era una grande programmazione e ti sentivi parte integrante di un progetto che doveva filare liscio perché tutto era stato organizzato affinché fosse così. Complimenti quindi a Giampiero Boniperti che è stato un grandissimo presidente».
Anche dal punto di vista tecnico, era una squadra che divenne famosa perché rinunciò al regista classico per un centrocampo più atletico. «Non sono d’accordo, sarebbe più corretto affermare che di registi quella squadra ne aveva dieci. Eravamo addirittura un po’ sbilanciati in avanti per i giocatori che avevamo, ma era un undici forte ed equilibrato sotto tutti i punti di vista. Se la mettevi sul piano tecnico, per gli avversari erano dolori. E sul piano fisico ancora di più. C’erano individualità tecniche incredibili, ma la cosa più importante, e se si vuole innovativa, è che con dieci registi in campo, quando uno aveva la palla gli altri nove giocavano per lui. Insomma non fai cinquantuno punti su sessanta per caso e vinci una coppa Uefa. Era un gran gruppo sia dal punto di vista professionale che umano».
E affrontare il Milan cosa voleva dire? «A quel punto ero alla Juventus e facevo di tutto per battere il Milan. Semplice no? Ed è capitato anche di segnare un goal proprio nella prima gara da ex. Con un tiro da fuori realizzai il 2-2 in una partita in cui perdevamo per 0-2 a San Siro e riuscimmo a vincere per 3-2. Fu una vittoria memorabile che ci fece capire tutta la nostra forza. Lo dimostrammo a noi stessi e agli altri, anche se il Torino non si arrese facilmente e ci diede filo da torcere fino all’ultima giornata».
Ma un po’ di emozione per il ritorno a San Siro? «Era ovvio che ci fosse, anche perché San Siro è veramente uno stadio imponente, ma svaniva con il fischio d’inizio».
Come ha vissuto con questa nomea di giocatore cattivo? «Alla fin fine ringrazio coloro che mi hanno fatto diventare importante e famoso con questa nomea. Perché impauriti, i miei avversari lasciavano la palla ed evitavano di andare nei contrasti ed io facevo bella figura. Come modo di giocare ero sicuramente il più inglese, o tedesco, degli italiani dell’epoca».
Il suo ultimo anno in A è coinciso con la riapertura delle frontiere. Inevitabile, era l’unico modo per tornare a vedere giocare inglesi e tedeschi.
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