Detto Old Billy, fece parte del poker dei magnifici “Classe 1939” della Juventus, quattro giocatori che rimarranno sempre nella storia bianconera, per come si sono battuti, per quanto hanno vinto: Castano, Leoncini, Haller e appunto Old Billy. Questo soprannome proviene dalla grande ammirazione per Billy Wright, mitico centromediano dell’Inghilterra che sconfisse 4-0 l’Italia di Valentino Mazzola allo stadio Comunale di Torino, il 16 maggio 1948. Billy fu adottato come nome di battaglia da Salvadore: «Potenza del nome, suonava bene, e poi apparteneva a un gran regista difensivo, un pilastro dell’Inghilterra dei maestri».
Nato a Niguarda, nel milanese, scoprì il pallone all’oratorio della sua parrocchia, come tutti i bambini dell’epoca. Poi fu scoperto dai tecnici delle giovanili del Milan e in maglia rossonera bruciò tutte le tappe: vinse due Torneo di Viareggio e a diciotto anni debuttò in Serie A, laureandosi Campione d’Italia nel 1959; nel 1960 disputò le Olimpiadi a Roma con la Nazionale e, due anni dopo, centrò il suo secondo scudetto, sempre con i rossoneri. La coppia centrale di quel Milan era formata da Salvadore e da Maldini e i due si somigliavano parecchio, come stile e modo di giocare; allenatore del Milan era il mitico Gipo Viani, che favorì l’esperto Cesare Maldini come libero. Salvadore si ritrovò a fare il marcatore e con le sue qualità fisiche e con i suoi fondamentali, si sentiva sprecato in quel ruolo ed ebbe dunque un concorrente agguerrito in Maldini.
Questo dualismo fu risolto cedendo Salvadore, assieme ad un altro terzino, Noletti, alla Juventus in cambio di Bruno Mora, un’ala molto talentuosa. Viani, inventore di uno dei primi sistemi difensivi fondato sul libero, era un personaggio di spicco nel panorama del calcio italiano; per giustificare la cessione di Salvadore disse: «Avevamo due paia di pantaloni, Salvadore e Maldini, ne abbiamo dato via uno in cambio di una giacca, Mora. Adesso disponiamo di un vestito completo».
Letto l’articolo, Salvadore gli rispose: «Il ragionamento funzionerebbe, se non fosse che si è tenuto i pantaloni vecchi. Poteva tenersi quelli nuovi da abbinare alla giacca nuova, così avrebbe avuto un vestito veramente bello».
Salvadore era uno dei pochissimi difensori, se non l’unico, che teneva i calzettoni arrotolati sulle caviglie, come Omar Sivori. All’epoca non era obbligatorio portare i parastinchi, a lui davano fastidio e li metteva solo in casi eccezionali. Mostrava gli stinchi nudi agli avversari, senza timore. A volte sembrava brusco, quasi burbero ma capace di ridere e scherzare su tutto, se c’era da dire qualcosa in faccia a qualcuno, Salvadore non si tirava mai indietro.
Non erano anni facili alla Juventus, anche se c’erano grandi giocatori, come il fenomenale Omar Sivori, ancora capace di fare la differenza, e un cursore infaticabile come Del Sol. L’allenatore era Paulo Lima Amaral, già preparatore atletico del Brasile che nel 1958 e 1962 aveva vinto due Mondiali, giocava a zona e applicava il rischiosissimo 4-2-4, che si trasformava in 4-3-3 in fase difensiva. La coppia centrale della difesa era composta da Castano e Salvadore, che giocavano in linea. Amaral non durò a lungo e, nelle prime giornate del torneo successivo, fu esonerato e sostituito da Eraldo Monzeglio, ex Campione del Mondo 1938.
Dopo Monzeglio arrivò Heriberto Herrera, con il quale Salvadore ebbe un rapporto difficile. Il Ginnasiarca volle utilizzarlo sull’uomo, con Castano battitore ma Salvadore si ribellò e l’inflessibile Herrera lo mise fuori squadra. Riserva nella Juventus e titolare, come libero, nella Nazionale di Edmondo Fabbri, che lo riteneva un elemento importantissimo.
Una situazione veramente comica. Sandro assicurava che, se avesse potuto tornare indietro, non contesterebbe più Heriberto, l’inventore del “movimiento”, accettando il ruolo: «È un po’ anacronistico dirlo in tempi in cui tutti contestano e, come vanno in panchina, fanno intervenire il procuratore e, magari anche l’avvocato. Comunque, il tempo mi diede ragione».
A fine maggio 1967, Salvadore vinse il suo terzo scudetto, il primo con la Juventus. Fu quello del clamoroso sorpasso sull’Inter, all’ultima giornata. Il ciclo di HH2 toccò il culmine con la semifinale di Coppa dei Campioni persa con il Benfica di Eusebio, la Perla del Mozambico. Sullo slancio, Salvadore ottenne la soddisfazione più bella della carriera, vincendo il campionato d’Europa per Nazioni, a Roma nel 1968.
Escluso dalla prima finale con la Jugoslavia, finita 1-1 dopo i tempi supplementari, fu ripescato da Valcareggi per la ripetizione: «Il Commissario Tecnico capì di aver sbagliato qualcosa e corresse la formazione, azzeccando le mosse giuste, dal sottoscritto in difesa, al tandem Riva-Anastasi in attacco. I goal di Gigi e Pietruzzo ci diedero il trionfo. Una notte magica, indimenticabile, con lo stadio Olimpico e l’Italia in delirio».
Nel 1969-70, a causa del declino di Castano, Old Billy divenne capitano e tornò, stabilmente, a giocare da libero. Ebbe piena fiducia da Carniglia e poi da Rabitti, che subentrò al tecnico argentino, dopo un avvio di campionato quasi disastroso. Salvadore ripagò la fiducia con gli interessi, pilotando la Juventus a una serie di sedici risultati utili consecutivi che misero paura al Cagliari di Gigi Riva lanciato alla conquista del primo storico e unico scudetto. Un dubbio rigore concesso da Lo Bello, il Principe del fischietto, per un fallo su Riva, trattenuto per la maglia proprio da Salvadore in mischia sotto porta, dopo un corner per i sardi, fissò il risultato sul 2-2 e permise al Cagliari di tenere la Juventus a meno due punti. Da quella partita il Cagliari del suo condottiero Rombo di Tuono prese la spinta decisiva per volare verso il tricolore.
Quella fu anche la stagione che costò a Salvadore il posto in azzurro, proprio alla vigilia del Mondiale messicano. Aveva già disputato due Mondiali ed erano stati fallimentari; è il suo più grosso rimpianto: «In Cile, nel 1962, avevamo uno squadrone fortissimo, in grado di strappare il titolo al Brasile. Sivori, Altafini, Rivera, Maldini, Mora, Trapattoni, Maschio, Pascutti, Robotti e altri nomi importanti. Eppure, fummo eliminati nel primo turno. A parte l’arbitraggio scandaloso dell’inglese Aston, fu una cattiva gestione la causa dell’eliminazione. Come in Inghilterra, quattro anni dopo. Albertosi, Facchetti, Bulgarelli, Rivera, Mazzola, Rosato, Meroni, in una rosa ricca di campioni. Eppure, fummo incredibilmente battuti dalla Corea del Nord, a Middlesbrough, con un goal di un certo Pak-Doo-Ik. Valcareggi, visionandoli li aveva definiti dei Ridolini. Loro risero e noi piangemmo amare lacrime. Ero in tribuna, quel giorno, ma anch’io divenni un “Coreano”. Peccato».
Due sfortunatissime autoreti al Bernabéu di Madrid nell’amichevole con la Spagna, la sera del 21 febbraio 1970, vanificarono i goal di Anastasi e Riva e indussero il Commissario Tecnico Valcareggi che, come Napoleone voleva i suoi generali fortunati, a non convocarlo per il Mondiale messicano: «Il giorno più brutto della mia carriera; In realtà, feci solo un autogoal, sull’altro non toccai il pallone, ma me lo attribuirono lo stesso».
Fu la trentaseiesima e ultima presenza dello juventino in Nazionale. La Juventus divenne la sua Nazionale. Non saltò mai una partita: «Avessero dovuto pagarmi a gettone, sarei costato un patrimonio alla società».
Non gli è mai piaciuto perdere: come quella volta che andò a segnare il goal del pareggio, al ritorno di Juventus-Milan, decisiva per la testa del campionato, poi vinto: «Aveva segnato Bigon per loro, ma noi non potevamo perdere; continuavo ad andare in attacco, anche per far capire agli altri che non bisognava mollare la presa, finché non è arrivata la palla giusta. No, non si poteva perdere e non abbiamo perso».
Con la maglia bianconera ha disputato ben 449 partite vincendo altri due scudetti nel 1971-72 e nel 1972-73 e giocando anche la finalissima dei Coppa dei Campioni a Belgrado, persa 1-0 contro l’Ajax. Nel 1974, per dare spazio a Scirea, la Juventus gli concede la lista gratuita.
Cominciò l’attività di allenatore, nel settore giovanile della Juventus. Ebbe anche due parentesi con i semiprofessionisti a Casale e Ivrea, ma la sua passione era allenare i giovani. Qualche anno dopo prese la solenne decisione di trasferirsi, con moglie e tre figlie, in una cascina a Castiglione d’Asti. Sentiva il bisogno di stare all’aria aperta, di vivere nel verde, diventando così un ricco pensionato che ama vivere nel verde e guidare i trattori. Con, nel sangue, la mai sopita passione per il calcio.
Ci lascia nel 2007, in una fredda mattina di gennaio, mentre la sua amata Juventus gioca un insensato, immeritato e immotivato campionato di Serie B. Ma noi lo ricordiamo fiero e senza timore, senza parastinchi e con i calzettoni giù fino alle caviglie, uscire dall’area palla al piede e scendere nella metà campo avversaria per cercare l’assalto decisivo.
Il ricordo di alcuni ex compagni il giorno del funerale. «Mi spiace tantissimo – dichiara Anastasi – ci eravamo incontrati per la festa dei 109 anni della Juventus e lo avevo rivisto con grande piacere. Quando ero arrivato a Torino, Sandro era uno degli anziani, il capitano, ed è sempre stato per tutti un punto di riferimento. Non voleva mai perdere, era una persona speciale».
Per Bettega, invece, «Billy è stato un maestro, oltre che un compagno. Spesso la domenica mattina andavamo a Messa insieme. Ho tanti ricordi personali più che calcistici, per quelli credo parli la sua carriera di campione straordinario e duttile, capace di giocare terzino come centrale con la stessa efficacia».
Ricordo intenso anche da parte di colui che ha condiviso la camera, Franco Causio. «È stato mio compagno di camera quando ero arrivato alla Juventus. Ero poco più che un ragazzino e mi ha aiutato tantissimo. Parlare del calciatore mi pare superfluo; può sembrare una frase fatta, ma come persona ha rappresentato molto per me».
Quindi Beppe Furino, che qualche anno più tardi ha ereditato la fascia di capitano. «Sandro per me era un punto di riferimento. Con Del Sol, Leoncini, Castano, rappresentava la vecchia guardia e quando arrivai a Torino era un serbatoio inesauribile di consigli utili e di esperienza. Con il tempo ci siamo frequentati e la sua scomparsa mi lascia molto addolorato, perché perdo un amico».
Infine Morini: «Billy era un grande calciatore, un difensore con la classe di un centrocampista. Mi ha aiutato a inserirmi nel gruppo e in tanti abbiamo imparato molto da lui, anche Scirea, che prese poi il suo posto. Andavamo a caccia insieme ogni tanto, mi spiace tantissimo che se ne sia andato e voglio fare le mie più sentite condoglianze alla sua famiglia».
“HURRÀ JUVENTUS” APRILE 1979:
Lo chiamavano Billy il grande.
I colleghi alla Juve, specie i più giovani, erano ammirati e orgogliosi di lui. Al suo fianco si sentivano tranquilli, protetti e l’indomabile Sandro Salvadore, è di lui che parlo, maniche rimboccate sino al gomito, alto, dinoccolato, dal duro cipiglio, a offrire costantemente il proprio alto contributo di forza e di esperienza a favore della squadra. Quasi un eroe da film western, un cowboy alla John Wayne, per intenderci, e questo gli valse appunto quell’affettuoso appellativo di Billy.
Sandro Salvadore, è storia ancora abbastanza recente, ha lasciato con l’attività agonistica cinque anni or sono, cioè al termine della stagione 1973-74 che vide la Juventus seconda alle spalle della Lazio, per cedere il posto al giovane Scirea. Aveva trentacinque anni, il fisico integro, malgrado la lunga carriera percorsa, una carriera condensata di allori, i due scudetti nel Milan dapprima, poi i tre in bianconero a cominciare da quello storico nel 1966-67 con Heriberto, il tredicesimo della serie juventina che coincise con il settantennio della società torinese. Era giunto anche per lui il momento di chiudere e di pensare al domani.
«Quel collettivo – mi ricorda Sandro – è stato ripreso un poco da tutti. Certo, Heriberto aveva le idee avanzate, moderne, anche se era un tipo poco aperto. Il libero con lui già si inseriva, partecipava alla manovra. Era insomma un tecnico di valore come serietà nella preparazione, nell’allenamento. Adesso in un certo senso il compito per i nostri allenatori è più facile. Il Supercorso che seguo a Coverciano, ad esempio, ci informa di tutto quanto di meglio c’è nel mondo in fatto di teoria e di pratica calcistica».
Già, il Supercorso di Coverciano che vede Sandro a scuola con altri illustri ex colleghi, Angelo Cereser, Agroppi, Puja, con il quale formò un forte tandem in Nazionale, Tumburus, Cella, Fogli e altri ancora: «Finiremo a maggio e avrò il brevetto di allenatore del Settore giovanile. È un corso molto impegnativo, otto ore di lezione al giorno dal lunedì al venerdì; numerosi i preparatori, gli insegnanti; le esperienze dall’estero, anche con selezioni di filmati, completano poi il nostro bagaglio tecnico personale e di cultura con nozioni di medicina, anatomia, biochimica».
Salvadore da parte sua ha comunque già una certa esperienza nel settore giovanile, considerando che è al suo terzo anno alla Juventus quale istruttore seguendo la Primavera. Parlando dei ragazzi di oggi viene quindi facile con lui ritornare indietro nel tempo, all’esordio in rossonero: «Al Milan si guardava molto ai giovani a cominciare dal Direttore Tecnico Viani. Allora l’allenatore della prima squadra ci seguiva assiduamente. La presenza di Viani, anche se critica, era utile. Noi eravamo una signora squadra con i vari Danova, Trebbi, Ferrario, Radice, Trapattoni e il sottoscritto. Andammo alle Olimpiadi romane e tenemmo testa alle selezioni dell’Est che pure erano le Nazionali A. Adesso per i giovani si impiegano dei capitali, allora cosa costavano alle società? Ci davano da mangiare e ci pagavano le spese, tutto qui».
Abbiamo ricordato Gipo Viani ma quale peso ha avuto Nereo Rocco nella riuscita della sua carriera? «Rocco era tutto il contrario di quello che impariamo a Coverciano; era un autodidatta, poco democratico, ma aveva quel qualcosa che gli faceva sempre capire gli altri, in particolare i propri giocatori, tenerli carichi psicologicamente».
Da un radicale rinnovamento prese proprio l’avvio il meraviglioso settennio bianconero: «È stato così, infatti, con Haller e il sottoscritto a fare da riferimento».
Si diceva che lei sentisse particolarmente il fascino della maglia azzurra: «Effettivamente la Nazionale è qualcosa di più del campionato a patto però che il risultato sia legato a un traguardo. Le amichevoli, insomma, non mi andavano. Io raggiunsi il massimo del rendimento proprio quando i responsabili della Nazionale si dimenticarono di me. Comunque sono già orgoglioso delle mie trentasei presenze in azzurro, del mio campionato Europeo del 1968».
La sua è stata una carriera ricca di allori; ci saranno però stati pure dei momenti di delusione come d’altronde capita in tutte le attività. Qualche rammarico? «Sì, principalmente uno, quello di non aver conquistato la Coppa dei Campioni a Belgrado nella famosa finale con l’Ajax del 1973. Eravamo arrivati vicinissimi oramai a quella Coppa, troppo vicini. Potevamo fare di più ma purtroppo proprio in quella grande occasione la sorte ci voltò le spalle».
ALBERTO FASANO, “HURRÀ JUVENTUS” SETTEMBRE 1985:
Era un tipo smilzo, lungo lungo, magrolino, anche se di costituzione robustissima. Giocava nel grande Milan di quei tempi, assieme a Maldini, Radice, Dino Sani, Altafini, Rivera e Trapattoni: e proprio assieme all’amico Trapattoni, il grande Sandro esordì con la maglia azzurra il 10 dicembre 1960, allo stadio San Paolo di Napoli, in occasione di un’amichevole con l’Austria.
Fu l’indimenticabile Gioanin Ferrari, allora Commissario Tecnico, a convocarlo e a gettarlo nella mischia internazionale, perfettamente convinto delle qualità tecniche e fisiche del ragazzo. Purtroppo la prima gara coincise con una sconfitta: gli austriaci, capitanati dal grande Hannapi, riuscirono a battere (2-1) l’Italia scesa in campo nella seguente formazione: Buffon; Losi e Castelletti; Guarnacci, Salvadore e Trapattoni; Mora, Boniperti, Brighenti, Angelillo e Petris.
Dopo soli sette minuti di gioco l’Austria andò in vantaggio con l’interno Hof, poi, dopo venti minuti di ruggente arrembaggio, gli azzurri agguantarono il pareggio per merito di Boniperti; ma all’inizio della ripresa il centravanti Kaltenbrunner siglò la rete che diede il successo agli austriaci. Sia Salvadore che Trapattoni, i due giovanissimi esordienti, si comportarono in modo eccellente, tanto è vero che entrambi furono riconfermati da Ferrari per la successiva amichevole del 25 aprile 1961 a Bologna contro l’Irlanda del Nord.
In quell’incontro le cose andarono meglio, almeno per quanto riguarda il risultato: gli azzurri vinsero per 3-2, dopo un’altalena di emozionanti fasi di gioco. Al 30’ e al 55’ il bianconero Stacchini segnò per l’Italia, ma prima Dougan e poi McAdams rimisero in equilibrio le sorti della gara. Ci pensò poi Sivori a mettere a segno il goal vincente quando mancavano dodici minuti al fischio finale.
Salvadore continuò ancora a giocare altre partite in Nazionale, con provenienza milanista, prima di approdare alla Juventus, evento che si verificò all’inizio della stagione 1962-63. E fu Mondino Fabbri a riproporlo in Azzurro dopo un certo periodo di assenza.
L’occasione arrivò quando la Nazionale italiana dovette trasferirsi a Istanbul (27 marzo 1963) per giocare la seconda partita valevole per la Coppa Europa delle Nazioni. Fabbri mandò in campo una formazione mosaico: Vieri (Torino); Maldini (Milan) e Facchetti (Inter); Tumburus (Bologna), Salvadore (Juventus) e Trapattoni (Milan); Orlando (Roma), Puja (Vicenza), Sormani (Mantova), Corso (Inter) e Menichelli (Roma). L’Italia vinse per 1-0.
Grande esibizione della coppia Salvadore-Trapattoni il 12 maggio 1963 allo stadio di San Siro, dove fu giocata la famosa super sfida Italia-Brasile. Tutti ricorderanno come Trapattoni annullò il grande Pelé, ma non tutti sanno che Sandro Salvadore letteralmente cancellò dal terreno di gioco il temibile Coutinho, meritandosi i sinceri complimenti di Feola, il rubicondo Commissario Tecnico della compagine brasiliana.
A Torino, acquistato dalla Juventus, il taciturno Salvadore trovò l’ambiente ideale, sia come calciatore che come uomo, e come marito della sua giovanissima sposa Anna. Torino parve immediatamente la città che faceva per lui e Sandro ci si trovò come se ci fosse addirittura nato. Lui composto, lineare, riservato, Torino composta, lineare, riservata. Sandro e Anna scelsero un appartamentino sulle prime propaggini della collina, sulla rampa che porta ai Cappuccini; le finestre si aprivano sulla collinetta, dove sorge l’abbazia, dal soggiorno si spaziava sui viali del Lungo Po, attorno calma e silenzio, davanti a casa un boschetto delle gagge, dietro la verde collina.
Sono sicuro che Sandro Salvadore ricorda ancora con nostalgia quei tempi e quella casa, la casa di due freschi sposi, una casa dove lui ci stava tanto e volentieri. Molti credevano che il libero della Juventus fosse un incallito introverso o un tenace solitario; ma lui si ribellava a quell’etichetta. Diceva: «Vivo così perché mi piace e per nessun altro motivo».
Era, infatti, tutto sommato, un tipo socievole, in certa misura. Mi spiego: con i compagni viveva volentieri, scherzava e rideva, stava alle battute spiritose. Ma per la partita a carte o per il film visto collegialmente dopo l’allenamento, Sandro era un elemento perso. Preferiva tornarsene a casa, gli piaceva la poltrona comoda, il the bevuto con Anna, le quattro chiacchiere semplici che si possono fare leggendo il giornale o guardando la televisione.
Ricordo le sue abitudini, specialmente quelle del lunedì. Era il giorno della completa evasione. Se la domenica non prendeva botte, allora il lunedì mattina saltava in macchina con la moglie e andava fuori Torino. Se si era in stagione invernale, saliva sempre a Sestriere: un’ora di sci, un’ora di sole, riposo e distensione. Non dimenticando la lettura dei giornali, al lunedì sera, quando, tornato a casa, si metteva in pantofole e si accucciava in poltrona.
Questo ritratto di Sandro Salvadore non assomiglia per niente a quello che si deve fare se lo si esamina dal punto di vista atletico, sul terreno di gioco. Allora la trasformazione era completa: Salvadore era un autentico guerriero, un magnifico atleta, un giocatore che faceva sempre sentire all’avversario il peso della sua massiccia muscolatura. Colpiva di testa con incredibile precisione, con forza paurosa, una specie di ariete. Con i piedi era di un’abilità brasiliana. Ricordo che due altri giocatori juventini palleggiavano volentieri con Sandro: i due si chiamavano Sivori e Haller, due campioni inarrivabili, che con la sfera di cuoio facevano tutto quanto volevano. E Sandro Salvadore; sia ben chiaro, non era inferiore ai due.
Poteva occupare qualsiasi ruolo della difesa, da terzino, a stopper, a libero. La classe (e più tardi l’esperienza) gli ha sempre consentito di esibirsi su qualsiasi platea, nazionale o internazionale, fornendo ovunque strepitosi saggi di calcio atletico e di calcio raffinato.
Diventò capitano della Nazionale il 10 maggio 1963, giorno in cui l’Italia incontrò la forte rappresentativa dell’URSS allo stadio Olimpico di Roma. L’incontro finì in pareggio (1-1), ma gli azzurri diedero prova di grande carattere e di consumata maestria, anche se la rete del pareggio venne realizzata da Rivera a un solo minuto dal fischio finale.
Dal giorno in cui ebbe i gradi, Salvadore si comportò sempre da grande campione, collezionando indimenticabili successi nella sua lunga carriera. Dopo aver portato per diciassette volte la fascia di capitano, dovette cederla a Facchetti.
La carriera azzurra di Salvadore fu bruscamente troncata dal Commissario Tecnico Ferruccio Valcareggi che credette di individuare in due sfortunate autoreti del libero azzurro (partita di Madrid, 21 febbraio 1970, pareggio per 2-2) la causa di una mancata vittoria sugli iberici. Gli Azzurri erano andati in vantaggio con Anastasi all’11’ e avevano raddoppiato con Riva al 18’; poi, nel giro di due disgraziatissimi minuti, dal 23’ al 25’, ecco gli autogol di Salvadore. E la fine, brusca e immeritata, di una magnifica carriera con la maglia azzurra!
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