Articolo di Emilio Aurilia
Benché “Let It Be” (1970), ultimo album di studio dei Beatles sia stato pubblicato successivamente ad “Abbey Road” (1969), è in realtà questo l’ultimo prodotto discografico dei fab four perché “Let It Be” è formato da canzoni composte prima o al massimo contemporaneamente.
Il famoso concerto sul tetto del 30 gennaio 1969 di cui sono state lasciate parecchi testimonianze audiovisive, è un episodio antecedente all’impegno profuso in studio per la creazione di quanto più tecnologicamente e qualitativamente elevato sua stato concepito.
Pubblicato il 26 settembre 1969, avrebbe dovuto chiamarsi “Everest” dove gli stessi Beatles sarebbero stati dirottati per gli scatti fotografici ed invece sono bruscamente atterrati al punto da intitolare l’album col nome degli studi di registrazione che per cinque anni li aveva amorevolmente accolti: un doveroso omaggio.
E proprio la foto scelta per la copertina ha continuato ad avallare le insistenti voci sulla presunta morte di Paul avvenuta all’alba del 9 novembre 1966.
Lo scatto dei quattro in fila indiana sulle strisce pedonali di Abbey Road non sarebbe una scelta casuale, bensì una immagine atta a rappresentare una sorta di corteo funebre condotto da John in abito bianco, un officiante nel colore del lutto orientale, seguito da Ringo in scuro a sottintendere la funzione di un necroforo e a chiudere la coda George abbigliato in jeans e camicia come uno scavatore di fosse. Fra lui e Ringo c’è Paul scalzo e col passo invertito rispetto agli altri tre, ad occhi chiusi, una sigaretta nella mano destra lui mancino ad interpretare la salma da condurre al cimitero.
Una vera pacchia, insieme ad altri particolari meritevoli di approfondimento in altra sede, per i tantissimi pignoli esegeti, sostenitori della veridicità del decesso del bassista.
Il nuovo prodotto, confezionato come sempre con estrema cura, vede al dettaglio il lato A presentarsi in modo più tradizionale; Lennon è in ispirazione notevole in apertura e chiusura, iniziando con la frastagliata “Come Together” caratterizzata da una sua riuscita interpretazione vocale su di un testo autoironico e indovinati giri di basso e competenti interventi di piano elettrico ad opera di Paul; mentre “I Want You (She’s so Heavy)” in chiusura di lato presenta un lodevolissimo assolo di chitarra quasi jazz ad opera del suo autore e un ipnotico arpeggio come finale del lungo brano.
Meno convincente appare McCartney nella sua amata vena vaudeville con “Maxwell’s Silver Hammer” e con il lento terzinato alla maniera dei Platters “Oh Darling”.
Ringo ci delizia invece con il divertente e ottimista rockabilly “Octopus’s Garden” che pare abbia preso ispirazione da un suo viaggio in Sardegna.
Ma a dar lustro alla prima facciata è “Something” di Harrison, semplice e melodica da lui sottovalutata al punto di volerla regalare a Jackie Lomax, nuovo acquisto della Apple e invece definito il brano migliore di “Abbey Road” secondo la coppia Lennon-McCartney e addirittura “La migliore canzone d’amore degli ultimi cinquant’anni” secondo Frank Sinatra!
Se già il ridotto intervallo fra una canzone e l’altra di “Pepper” aveva costituito una sorta di pietra miliare seguita negli anni da schiere di musicisti, il medley del lato B di questo album suggerirà alle future generazioni del rock un innovativo approccio musicale.
Parte con “You Never Give Me Your Money”: delicata melodia voce e pianoforte con basso in sottofondo (tutto ad opera dell’autore McCartney) e che, proseguendo a tempo di boogie, cambierà perlomeno altre tre volte nello spazio di quattro minuti!
La dissolvenza con suggestivo sottofondo di grilli apre ad una sequenza di tre brani Lennon: la esotica riposante “Sun King”, la breve marcetta “Mean Mr. Mustard” e il rock “Polytheme Pam” per poi dar spazio alla chiusura in crescendo di McCartney col blues rock “She Came In Through The Bathroom Window” la dolce ballata “Golden Slumbers” che richiama “The Fool On The Hill” da “Magical Mystery Tour”, la corale “Carry That Weight” che riprende il motivo principale di “You Never Give Me Your Money” e l’incredibile “The End” che sa offrirci in soli due minuti un assolo di batteria di Ringo (l’unico in carriera), un poderoso crescendo di chitarre rock a tre parti (Paul, George e John) e un melanconico atterraggio sinfonico in Do maggiore.
The End: la fine, la fine del medley che vale tutto il lato B, la fine dell’album, la fine dell’attività discografica dei Beatles come gruppo.
A tale brano non potrebbe infatti seguire alcunché e invece dopo uno stacco di una ventina di secondi c’è tempo per un altro brevissimo frammento di Paul: “Her Majesty”, voce e chitarra acustica che riecheggia “Blackbird” in tempo accelerato, ma stranamente, primo esempio di ghost track discografico, non figura fra i titoli dei brani sulla copertina.
Non è stato certamente un errore il suo inserimento ma, sia pur ammirando la geniale imprevedibile originalità dei Beatles, stona rovinando un po’ la magnifica solennità dell’ultimo accordo di “The End” e…la sua intenzione.
Un prodotto che ha conservato intatta la sua viva originalità, così come è vivo tutto ciò che è immortale.
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