Adriana La Trecchia Scola

 

Il titolo francese dell’ ultimo film di Nanni Moretti utilizza il termine “radioso” che suona più acuto, in quanto la deduzione cui si arriva è proprio la mancanza di un futuro: un futuro che è passato e di cui purtroppo ci siamo accorti. Il futuro-promessa che animava i baby-boomers si è trasformato in un futuro-minaccia che ci fa sentire impotenti e disgregati. Del resto Moretti, nel raccontare la storia attraverso le canzoni, canta Sono solo parole di Noemi: “E fingersi felici di una vita che non è come vogliamo/E lasciare che la nostalgia passi da sola”. Oggi sembra di vivere in un eterno presente senza nè passato nè futuro: perchè la pretesa superiorità del pensiero odierno da una parte liquida in modo sprezzante ciò che è stato, dall’ altra prefigura in modo infallibile il seguito. Risale a Napoleone l’ affermazione che la storia non si fa con i se e i ma, però è difficile evitare questa possibilità. Così si trova un’ adeguata consolazione che conforta, ma anche ammorbidisce le nostre resistenze. Il passare del tempo (il fatto che ne sia trascorso più di quello davanti) ci porta ad essere accondiscendenti verso l’ esterno tanto combattuto (perchè tanto ci ha fatto soffrire). Se questo riguarda la singola soggettività, non si può negare che coinvolga pure l’ intera collettività. Nel mondo odierno c’è un eterno scontento in quanto più che vivere si sopravvive. “Ci fu l’ epoca dei rivoluzionari, ci fu il tempo dei ribelli. Questa è l’ età degli scontenti. Siamo scontenti della vita che facciamo e di noi stessi. Il potere ci vuole insoddisfatti, per generare desideri e dipendenze. Ma qualcosa non è andato come previsto” (Marcello Veneziani, Scontenti- Perchè non ci piace il mondo in cui viviamo). Se manca la fiducia nella rivolta e ribellione, si diventa scontenti, rassegnati, impotenti. “Non c’è più la società perfetta verso cui tendere, come era stato fino agli anni di piombo, sicchè resta solo la sua carica negativa: rimane il rigetto verso la realtà, la natura, la storia, la vita comune, tutto ciò che puzza di normale”. Nell’ impossibilità di affrontare la realtà si perpetua l’ agonia attraverso un continuo piagnisteo. Questa situazione è la conseguenza del processo di dematerializzazione del mondo, per cui il mondo perde concretezza, natura, identità, e diventa fluido, virtuale, artificiale. Fino a non molto tempo fa, si credeva nelle magnifiche sorti e progressive della tecnica. Negli anni ottanta del secolo scorso l’ ottimismo nel progresso era alle stelle: negli Stati Uniti grazie ad un’ improvvisa accelerata neoliberista che non veniva controbilanciata da una forza uguale e contraria proveniente da Mosca. La tecnologia era diventata accessibile e come tale alimentava la speranza (tradita) di poter eludere le strutture marce dello Stato, di superare la burocrazia, creando un mondo nuovo. Invece si è visto che Internet non ha rotto le catene, ma ne ha costruito di più forti. L’ uso che l’ utente medio fa della rete è, nel migliore dei casi, quello che il cittadino medio di quarant’ anni fa faceva della televisione. Puro intrattenimento, spesso becero, raramente sofisticato. Le potenzialità della rete sono state assorbite dalle vecchie strutture di potere, che non si fanno scrupolo di scavalcare le regole del gioco se la loro sopravvivenza è a rischio. Oggi all’ ottimismo verso il progresso si sostituisce la preoccupazione per le sue conseguenze. Il cd. padrino dell’ intelligenza artificiale, Geoffrey Hinton, ha lasciato il suo ruolo in Google per i “pericoli” legati alla tecnologia che lui stesso ha contribuito a sviluppare. Il lavoro pioneristico di Hinton sulle reti neurali ha dato forma ai sistemi di intelligenza artificiale che alimentano molti dei prodotti odierni. “Mi consolo con la normale scusa: se non lo avessi fatto io, l’ avrebbe fatto qualcun altro”, ha dichiarato Hinton al New York Times. Nell’ intervista al Times ha ribadito le sue preoccupazioni riguardo al potenziale dell’ IA di eliminazione di posti di lavoro e di creare un mondo in cui molti “non saranno più in grado di sapere cosa è vero”. Ha anche sottolineato il ritmo sbalorditivo dei progressi, ben al di là di quanto lui e altri avevano previsto. Già a marzo, alcune figure di spicco del mondo tecnologico avevano firmato una lettera in cui si chiedeva ai laboratori di intelligenza artificiale di interrompere l’ addestramento dei sistemi di IA più potenti per almeno sei mesi, citando “profondi rischi per la società e l’ umanità”. Tuttavia, considerando che questo accorato appello è stato diffuso da una organizzazione no-profit sostenuta da Elon Musk, e che è aumentata esponenzialmente la competizione tra le aziende tecnologiche per lo sviluppo e l’ implementazione di strumenti di IA (OpenAI, Microsoft, Google sono in prima linea, ma anche IBM, Amazon, Baidu, Tencent), si deve pensare che chiede un freno chi è rimasto indietro nella corsa all’ oro. Piuttosto che favorire una ricerca “clandestina” molto pericolosa (come tutto ciò che non avviene alla luce del sole), risulta preferibile chiarire gli aspetti controversi coinvolgendo l’ opinione pubblica (sempre che esista).

 

La colonna sonora del film Il grande freddo (The big chill-1983) è indimenticabile, essendo composta da oltre una ventina di classici degli anni sessanta. Questa selezione musicale è uno dei fattori dello straordinario successo della pellicola, in quanto scandisce i momenti salienti del racconto. Un “come siamo” rispetto a “come avremmo voluto essere” che osserva i rimpianti e i rimorsi, le irrimediabili velleità di quel gruppo di ex-contestatori non per accusarli di tradimento o di debolezza, ma per chiamarli protagonisti e testimoni della metamorfosi impietosa prodotta dalla storia. Dialogo tra due personaggi: “Come va la tua vita?–D’ incanto. E la tua?–Non d’ incanto.–Oh, si dice la verità?”. Il film è diventato un evergreen sempre piacevole da vedere, forse non originale perchè aveva alle spalle le riflessioni in tal senso di Altman e Scola. Infatti i protagonisti (interpretati da giovani attori affiatati, destinati a diventare i più grandi della loro generazione) sono un gruppo di  ex-sessantottini, permeati dagli ideali della contestazione, che si ritrovano nei primi anni ottanta al funerale di un amico suicida, radicalmente cambiati dalle delusioni del troppo collettivo e tricerati nel nuovo individualismo Yuppie. In pratica i ribelli degli anni sessanta che sperimentavano sostanze psichedeliche, capaci di allargare la percezione sulla vita, dopo un pò di anni si ritrovano a fare la stessa cosa, ma attraverso codici, stringhe, software. I Heard It Through the Grapevine (nella versione di Marvin Gaye) fa da sottofondo al memorabile incipit del film, dove si alterna nel montaggio la vestizione della salma (un Kevin Costner al suo debutto che non si vede mai per la scelta di dargli più pregnanza con l’ ingombrante assenza) e la preparazione dei protagonisti per la partenza. Probabilmente il film ha immortalato in modo macabro questa splendida canzone portata al successo come singolo nel 1968 da Marvin Gaye per la famosa etichetta della musica soul Motown. I Heard It Through the Grapevine fu il primo brano scritto dalla nuova coppia di hit-makers (Norman Whitfield/Barrett Strong) assoldati da Berry Gordy, boss della Motown, per variare il suo repertorio e nella versione di Marvin Gaye divenne il singolo di maggiori vendite della storia della Motown, con quattro milioni di copie vendute. Gli autori utilizzarono nella scrittura una espressione tipica degli schiavi neri nelle piantagioni (ascoltare attraverso la vite) per indicare una voce che si diffonde, un pettegolezzo. Per i giovani di oggi (millennial o simili) è più difficile fare bilanci perchè non riconoscono la realtà ma credono solo alla sua rappresentazione tramite piattaforme percepite alla moda. In un straniamento generale mantengono una forte attrattiva riti bizzarri e strampalati, come l’ incoronazione del re oppure lo scudetto del Napoli: in quanto rappresentano l’ identità collettiva del luogo cui fanno riferimento. Anzi servono a dare “stabilità a lungo termine, difficile da ottenere in altro modo” (cit. principessa Anna). Anche il boomers Nanni Moretti nel suo ultimo film dice: “Peró un rito è un rito, deve essere sempre lo stesso sennò poi va tutto male”.

 

 

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