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Una vita non basta

 

Articolo di Adriana La Trecchia Scola

 

Alla fine degli anni novanta un film (Sliding Doors-1998) è stato un singolare esperimento narrativo di successo attraverso l’ espediente di due vite parallele, che si incrociano spesso fino a ricongiungersi completamente. Ognuno di noi può effettuare diverse scelte in base al libero arbitrio ma in fondo ad attenderci c’è un destino che non possiamo evitare. Il dilemma libero arbitrio o predeterminazione sembra essere risolto nel senso che il caso/destino sia qualcosa di assolutamente ingovernabile. Da questo punto di vista il film appare deprimente o noioso o limitato, in quanto è indispensabile per l’essere umano credere che ogni nostra vita, seppure piccola, meriterebbe una seconda o terza possibilità. Oggi avviene in Eveything Everywhere All At Once (pressapoco Tutto ovunque in una volta sola o Tutto in ogni dove,tutto insieme) che racconta ciò che saremmo voluti essere o ciò che saremmo potuti essere. EEAAO è stato definito un “vertice anarchico di generi” (The New York Times), un mix impazzito di black-comedy, fantascienza, fantasy, arti marziali e animazione. Ma anche riflessioni sul senso della vita e momenti poetici pieni di grazia e tenerezza. Il tema centrale (e attualissimo) è il Multiverso (o gli infiniti multiversi), una missione salva-mondo e la trasformazione di una donna comune di mezza età in un’eroina. Temi che vanno di moda, anzi fanno concorrenza ai comics films, ma sviluppati in un film lucidamente folle che trascina in una vertigine entusiasmante e delirante. Alla fine la storia raccontata è quella dell’armonia, prima perduta e poi riconquistata, di una famiglia. Mentre certo cinema l’avrebbe descritto in due camere e cucina, qui si gioca con lo spazio e il tempo, quindi il multiverso, in un formato cinematografico (non televisivo-seriale) colorato e caleidoscopico, che accelera e accumula senza sosta. La trama intricatissima è divisa in tre parti dove Evelyn scopre altri mondi ancora, impara a menare le mani, a sopravvivere ad assalti, a conoscere grazie al legame con gli altri universi i propri punti di forza e i punti deboli degli avversari. Ovviamente Tutto in ogni dove,tutto insieme è divisivo perchè c’è chi lo ha amato alla follia e chi lo ha detestato come un pasticcio orrendo dove tutto è buttato alla rinfusa. Per alcuni infilare mille citazioni, mille situazioni, colori ed effetti e scene varie, mescolare il tutto in uno shaker e vedere “l’effetto che fa” è uno strazio “nonsense”. Comunque il film è un successo clamoroso (sia di pubblico sia di critica, avendo vinto tutto il possibile compresi sette Oscar) che scardina il sistema hollywoodiano sotto molti aspetti. La produzione è indie (ma dall’esito mainstream), nello specifico si tratta della newyorkese A24 (il marchio più cool del momento). Il nucleo protagonista è una comunità cinese-americana (su tutti Michelle Yeoh, che per inciso è una delle più grandi star del cinema asiatico d’azione). Infine la storia è sorprendente: parte da una donna asiatica in crisi di mezza età che gestisce una lavanderia a gettoni, con una figlia adolescente che non riesce più a comprendere, un padre anziano che parla solo cinese, un matrimonio in crisi e una verifica fiscale minacciosa (l’agente dell’agenzia delle entrate è interpretata dal “mito” Jamie Lee Curtis) e da lì accelera in un caos senza fine. Infatti la protagonista viene proiettata da un mondo all’altro, grazie “al salto tra universi”, per compiere una sconcertante missione: salvare il Multiverso da una minaccia oscura e terribile che potrebbe divorarlo. Evelyn ritrova se stesse diverse e delle vite differenti, scoprendo di aver vissuto mille vite diverse o di viverle in quello stesso istante. Evelyn scopre che quella triste  dal matrimonio finito e dagli infiniti oblò della lavanderia a gettoni che gestisce è la Evelyn finita peggio di tutte quelle possibili. In realtà i registi (i Daniels) fanno carte false pur di concedere l’illusione che tutto, in tutte le parti, allo stesso tempo, sia possibile. Per questo EEAAO, anche se estenuante e estenuato, è un film libero (oppure un’ originale anarchia piena di regole). Inoltre questo film costituisce la migliore rappresentazione del fantomatico “multiverso”, annunciato a ottobre 2021 da Mark Zuckerberg e dalla sua Meta. La visione di Zuckerberg, attorno la quale c’è grande confusione, richiede di indossare un visore per la realtà virtuale e di isolarci da tutto ciò che ci circonda, abitando non più un mondo fisico sempre più intrecciato a quello digitale, ma un ambiente virtuale all’interno del quale vengono ricreati ambienti ed esperienze del mondo fisico. Ancora prima dell’ottobre 2021 Zuckerberg aveva detto in una intervista: “Trascorriamo comunque un sacco di tempo mediando le nostre vite e le nostre comunicazioni tramite questi piccoli e luccicanti rettangoli” (si riferiva agli smartphone). “Penso che non sia il modo migliore che le persone hanno per interagire tra di loro. Ciò che la realtà virtuale è in grado di fornire, e ciò che più in generale il metaverso permetterà alle persone di provare, è una sensazione di essere in presenza molto più naturale rispetto al modo in cui siamo abituati ad interagire online”. Non si tratta di una presenza più naturale ma “immersiva”, però inutile. Infatti non ha senso replicare nel metaverso la quotidianità (dal lavoro allo shopping, fino alla socialità) per ottenere una sensazione di maggiore coinvolgimento, che risulta anche più  complicata. Finora le esperienze digitali tramite schermo hanno avuto un obiettivo: semplificare alcuni processi anche a scapito della ricchezza dell’esperienza. L’esempio più semplice è quello dell’ e-commerce: l’acquisto su un sito è meno coinvolgente di quello fatto nel mondo fisico, però elimina tutti gli ostacoli di quest’ultimo (recarsi in un luogo, trovare il negozio giusto, interagire con il commesso, fare la fila alla cassa). Il metaverso vuole ripetere nel mondo digitale una riproduzione dell’esperienza fisica, trasferendo però al suo interno le sue complessità. In pratica il metaverso di Zuckerberg così immaginato vorrebbe far saltare l’integrazione tra online e offline che caratterizza la vita odierna oramai da più di quindici anni. Il principio fu il 9 gennaio 2007 nel Moscone Center di San Francisco, quando Steve Jobs (il fondatore di Apple) lanciò il primo iPhone, che significa l’ “internet mobile”. Lo smartphone è il dispositivo decisivo nella rivoluzione sociale, iniziata con il personal computer e poi  nel 1991 proseguita con l’avvento del World Wide Web, per l’integrazione tra online e offline (mondo digitale o virtuale e mondo fisico). Un altro importante passaggio in questo avvicinamento sono i social network, attraverso i quali le relazioni vissute esclusivamente nel mondo fisico iniziano a trasferirsi anche nel mondo digitale. Circa i social network non si può parlare oggi di una loro fine, ma di un cambiamento. Le difficoltà incontrate dalle due principali piattaforme (Facebook e Twitter) per motivi diversi, e l’inarrestabile ascesa di TikTok (di proprietà della cinese ByteDance), indicano da parte degli utenti un uso passivo dei social ma anche il desiderio di condividere i propri contenuti su app più piccole e affini. Pertanto il metaverso di Zuckerberg sembra un azzardo destinato al fallimento se lo scopo è riprodurre in esso la quotidianità con tutte le sue scomodità. Al contrario l’utilizzo di un ambiente “immersivo” nel mondo virtuale può servire per far vivere avventure straordinarie che non sarebbero possibili nel mondo fisico, quindi nel gaming. I principali protagonisti della Silicon Valley (anche Zuckerberg e la Apple) stanno già esplorando la tecnologia della realtà aumentata con la creazione di visori che eliminino l’ultima barriera tra fisico e digitale: lo schermo. Bisogna ancora trasferire lo sguardo dallo smartphone alla strada per seguire le istruzioni di Google Maps. Tramite i visori non solo si visualizza la realtà circostante, ma si sovrappongono su di essa i simboli digitali. In maniera accorta Zuckerberg definendo metaverso anche i progetti di realtà aumentata, evita che il concetto sia un fiasco. Ai posteri l’ardua sentenza!

 

Crystal Ball è un singolo del gruppo musicale britannico di rock alternativo Keane, pubblicato il 21 agosto 2006 come terzo estratto dal secondo album in studio Under the Iron Sea. Il video, diretto dal regista italiano Giuseppe Capotondi, ha come protagonista l’attore americano ma di origini italiane Giovanni Ribisi. Più che un videoclip sembra quasi un piccolo film, tanto avvince e colpisce. Il protagonista vive la sua vita ordinaria da agente immobiliare, tra il figlio da accompagnare a scuola, il lavoro, la casa. Tutto procede normalmente, a parte qualche imprevisto quotidiano (chiavi che cadono, una foto che scivola), finchè non torna a casa dopo il lavoro: la serratura è stata cambiata, con sua moglie c’è un altro uomo. Da lì, gli eventi cominciano a precipitare. È impossibile non empatizzare con il protagonista, non provare insieme a lui paura e sgomento. Chi non sarebbe sconvolto se gli venisse tolto tutto, senza spiegazioni? L’inizio della canzone, profetico e spietato, anticipa e riassume i contenuti del cortometraggio:
Who is the man I see
Where I’m supposed to be?
I lost my heart, I buried it too deep
Under the iron sea
Curiosamente Crystal Ball è anche una canzone del gruppo rock bergamasco (di culto) Verdena. È il secondo estratto dell’ultimo disco Volevo magia, definito da Rolling Stones il più bel disco del 2022. Nel videoclip vengono descritti gli inquietanti riti di una setta immaginaria, con i membri della band in versione guru. Le parole “Soffiami tu in un Crystal Ball” si ricollegano al gioco creato in Italia nel secondo dopoguerra, appunto il Crystal ball scritto con la b minuscola. Era una pasta gommosa colorata in cui si soffiava con un apposito cannello per formare dei palloni morbidissimi e che non si attaccavano, come recitava il leggendario spot pubblicitario. Il gioco ebbe grande successo negli anni Ottanta quando cominciò ad essere commercializzato da Giochi Preziosi e vendette milioni di esemplari.

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