Articolo di Adriana La Trecchia Scola
“Le cose più vaste sono quelle che non/ possiamo imparare./ Non ci viene insegnato a morire, tanto meno/ a nascere./ Nè ad ardere d’ amore./ Pietoso è il ritorno forzato/ alle piccole cose in cui siamo maestri.” È una citazione dal sapore quasi biblico della trilogia di Gormenghast di Mervyn Peake: libro di culto, estraneo ai generi e ai canoni della critica letteraria, perchè senza caratura morale o necessità etica. L’ autore era un artista con il vezzo per la poesia e il nonsense, ma soprattutto un innato senso di libertà, che non vuole esprimere una lezione o un avvertimento, nè rappresentare un’ evoluzione artistica ma solo alimentare fantasie private. Così: “Vivere è già un miracolo./ Il destino delle nazioni è altro./ Qui, nel mio martellante battito è la prova./ Che ogni pittore dipinga, che il poeta incanti/ e tutti i figli della musica esercitino il loro/ ruolo;/ le macchine sono più deboli dell’ ala di uno/ scarabeo./ Penzola lungo la luce solare, nell’ ombra/ cosmica,/ il cuore dell’ immaginazione: qualunque cosa/ accada/ è sacca di stelle troppo alta, non puoi/ pesarla./ Avidità e terrore non ledono la nostra fede/ ogni martellante battito del cuore è la prova/ che la vita è di per sè un miracolo.” Secondo il filosofo danese Søren Kierkegaard la grande domanda è “come si può essere umani in questo mondo?”. La sua vita fu scandita dalla sofferenza praticamente dall’ inizio alla fine, nonostante ciò Kierkegaard era convinto (come Gesù) che la sua sofferenza avrebbe salvato il genere umano. “Voglio risvegliare la coscienza della gente, così che nessuno sprechi la propria vita”, scrisse nel 1847. In seguito dichiarò che smarrire sè stessi “può passare sotto silenzio e come una cosa da niente in questo mondo; mentre qualsiesi altra perdita, un braccio, una gamba, cinque dollari, propria moglie, etc., salta subito all’ attenzione.” Si tratta delle problematiche riguardo alla propria identità e alle proprie apparenze, derivanti dalla vita moderna, industrializzata, di massa: da una parte più confortevole per le persone abbienti, dall’ altra arida umanamente. Anche l’ intera industria accademica risultava una scappatoia dall’ esistenza autentica, senza un minimo di saggezza, incapace di salvare l’ io dalla perdita della sua coscienza. Kierkegaard aveva vissuto questa situazione in quanto la sua gigantesca opera può essere vista come un lungo ed esasperante tentativo di capire chi fosse e quale fosse il suo posto nel mondo. Tuttavia la sua attività autoriale non fu mai compresa dal pubblico perchè “il tutto è troppo filosofico”. “Il paradosso”, scrisse nel suo diario nel 1838, “è l’ autentico pathos della vita intellettuale, e come soltanto le grandi anime sono esposte alle passioni, così soltanto i grandi pensatori sono esposti a ciò che io chiamo paradossi, i quali non sono che grandiosi pensieri prematuri”. Oltre lo spirito polemico Kierkegaard fu estremamente gentile con amici e parenti, specialmente se in difficoltà. Infatti scrisse numerose e lunghe lettere alla cognata che soffriva di depressione, ricordandole di “amare sè stessa”. Mentre un amico disse che “lui lo capiva come pochi altri e che non lo sollevava dalle proprie tristezze nascondendole, ma facendogliele capire, snocciolandole fino alla chiarezza più assoluta”. La grande verità cui perviene il filosofo scandinavo è “il massimo a cui si arriva è poter comprendere che non si può comprendere”. Questa osservazione portò Albert Camus a dichiarare, ne Il mito di Sisifo, “Kierkegaard fa qualcosa di meglio che scoprire l’ assurdo: lo vive”. Del resto nelle riflessioni di Kierkegaard riecheggia fortemente “credo quia absurdum est”, perchè la via per l’ estasi passa nel paradosso.
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